Un’altra storia d’amore
Data: 20 Gennaio 2023
Tag: Racconti
Di: Viola
[Immagine: Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di venere]
Era davvero innamorata. Quante persone potevano dire la stessa cosa? Sul lettino d’ospedale guardava fuori la neve mentre si scioglieva, sotto il sole freddo di marzo. La finestra era chiusa e la luce veniva filtrata dai vetri appannati. Il giorno dopo l’avrebbero dimessa e sarebbe tornata a casa. Un appartamento bianco e spoglio, asettico come quell’ospedale di provincia. Avrebbe indossato le Timberland che lui le aveva regalato e, camminando fino alla fermata, avrebbe aspettato il bus sotto le gocce d’acqua che scorrevano lungo i tronchi nudi. Lui non sarebbe venuto a prenderla come aveva fatto l’altra volta, se ne era andato e non l’avrebbe più vista. Si chiedeva cosa stesse facendo in quel momento. Quelle giornate alla clinica erano interminabili e lei le passava osservando le infermiere, i pazienti e i parenti affezionati che venivano a far loro visita. Era la seconda o forse la terza volta che ci andava, in quei mesi tristi, all’ospedale, ma ogni viaggio disperato lui le prometteva sarebbe stato l’ultimo. Quello lo era veramente e lei si sentiva vuota. Le vacanze natalizie erano finite, ma continuava a trascinare con sé festoni colorati e un amore morto. In centro avevano già smantellato le luci che coloravano d’oro le strade grigie. Erano stati solo sei mesi, ma li avrebbe scambiati per tutto il resto della sua vita. Aveva appena diciannove anni e quello era stato il suo primo e vero amore, forse l’ultimo. Non importava come si erano conosciuti, non importavano le prime parole che si erano scambiati, sotto i portici della vecchia Università, nemmeno il loro primo bacio. Non era stato il bacio più bello che aveva ricevuto, ce ne erano stati pochi prima di lui, alcuni più dolci, altri più amari. Se quel bacio fosse stato perfetto fin da subito forse non si sarebbero nemmeno più reincontrati. Erano state le labbra incerte, i visi esitanti, le pupille che tremavano a farle venire voglia di continuare, andare più a fondo, sempre più lontano. Non c’è bellezza nella perfezione. Era sera, la pioggia aveva iniziato a bagnare l’erba del parco, ma loro erano protetti da un ombrello di luce. Sotto un alto lampione proiettavano le loro immagini sulla terra umida. Si era girata verso di lui, una mano calda le aveva accarezzato il viso e in un istante le loro ombre si erano fuse insieme. Si era lasciata avvolgere da quel buio ed era sprofondata in una bellissima oscurità. Ogni giorno che passava, con il caldo estivo che si scioglieva alla brina invernale e le foglie verdi che diventavano del colore del sole, si scoprivano. “Ti amerò per sempre, ti amerò davvero per sempre” gli diceva, guardandolo con gli occhi bugiardi dell’amore. Da quel letto bianco evocava i ricordi che le correvano davanti e le sembrava di sentirlo ridere, come un dio. Si chiedeva se prima di lui la vita era stata così insignificante come lo era in quel momento. L’aveva scoperta e l’istante dopo gliela avevano strappata. Non era stato sempre felice, non era stato sempre triste, ma era stato come era giusto fosse la vita. Le sue amiche non la capivano, non comprendevano quello che diceva, annoiate sul divano con i loro mediocri fidanzati. Che senso ha fingere di conoscere l’amore? Credevano veramente che fosse meglio accontentarsi di Linton, piuttosto che inseguire Heathcliff? Aveva trovato un amore per cui lottare, aveva combattuto, ma era stata sconfitta. Sua madre aveva scoperto i lividi, le visite all’ospedale e lo aveva allontanato da lei. Aveva cercato di opporsi, aveva gridato, aveva pianto e si era buttata a terra, urlando come una pazza. Era disposta a restare con lui a costo di farsi uccidere. Sarebbero potuti fuggire, andare lontano da una città che non li capiva, andare dove nessuno sapeva chi fossero. Amarlo era diventato davvero difficile, soffocata dalla nebbia opprimente di quel paesino. Uscita dall’ospedale sarebbe andata da una psicologa. Se solo gli altri avessero provato quello che lei sentiva nel petto ogni volta che lo vedeva, non glielo avrebbero tolto. Perché con lui il Paradiso era sulla terra. A inizio ottobre le aveva tirato uno schiaffo, il primo di molti.
In quel momento faticava persino a ricordarne il motivo. Come era ironica la vita. L’aveva colpita, ma era stato come ricevere un bacio. Non aveva pianto, ma lui si. Le aveva preso il viso tra le mani fredde, l’aveva guardata e lei si era accorta che le pupille verdi gli tremavano. Si era scusato, pentito e poi disperato, le aveva circondato la vita con le braccia. Le sue lacrime le avevano bagnato il maglione e aveva pensato che ci sarebbe sempre stato un prezzo da pagare. Lei gli aveva concesso perdono e pietà e lui l’aveva benedetta con l’amore. Solamente il giorno prima aveva pianto quando, un pallido pomeriggio, era stata costretta a dirgli addio. Dopo mesi di tentativi falliti, era riuscito a romperle due costole. Sul pavimento della cucina si piegava dal dolore, e le lacrime le scorrevano dolci lungo i lineamenti deformati dalla sofferenza. Poteva sentire le sirene, che, come violini, riempivano la stanza di musica. Non era stato lui a chiamare l’ambulanza, ne era certa, lo vedeva, attraverso le lacrime calde, girare per la stanza, impaurito, come un animale in trappola. Non si era scusato. Forse era stato un vicino che aveva sentito le sue grida, ma non le importava. Sarebbe potuta morire lì, in quel momento, perché lui era comunque al suo fianco. Quando ormai la barella era davanti alla porta, lui sussultando l’aveva presa in braccio, tenendo tra le dita spesse le sue gambe ossute. Da sotto la camicia larga si intravedeva una macchia scura, come dalla neve bianca che si scioglieva spuntavano le viole fresche. Lei non si muoveva più, era svenuta. La testa era piegata all’indietro e i lunghi capelli castani coprivano le braccia adornate da catenine argentate. Nemmeno Michelangelo sarebbe stato in grado di scolpire quella contorta pietà. Il viso chino del ragazzo guardava quel corpo addormentato come una madre guarda il figlio nella culla. Le aveva insegnato mese dopo mese, litigio dopo litigio che amarlo non era mai abbastanza. Era stata caricata sull’ambulanza da paramedici abituati a quelle scene, dallo sguardo stanco e addirittura infastidito da quel corpo silenzioso. Si chiedevano, come tutti, perché lei non lo lasciasse. Le aveva fatto male, ma era sembrato vero amore. Quel pomeriggio era stata l’ultima volta che lo avrebbe visto, lo sapeva, ormai si erano spinti troppo oltre. “Ti ho amato la prima volta, ti amerò l’ultima”. Quando si era svegliata, in quelle luci fredde e accecanti, aveva sentito che qualcosa se n’era andato e non sarebbe più tornato. Il sole debole era tramontato, lasciando posto ad una luna piena, chiara, che faceva brillare di bianco le gocce di pioggia. Quella notte non si era addormentata ma, sedendosi sul materasso al profumo di lavanda, aveva guardato fuori dalla finestra. Il bubolare di un gufo aveva accompagnato i suoi pensieri insonni. In un battito d’ali il buio si era rischiarato e lei aveva raggiunto l’uscita dell’ospedale. Era la mattina acerba del venti marzo, il giorno del ritorno di Persefone, proprio all’inizio della generosa primavera. La ragazza, liberata dall’Ade, toccava di nuovo la terra fredda, spogliata dall’inverno. Nell’istante in cui posava un piede nudo sull’erba bagnata la natura si risvegliava: il sole timido usciva dalle nuvole leggere e colorava di rosa l’alba, luminosa come una perla. Appena vedeva i fiori sbocciare Demetra correva tra le fronde degli alberi per raggiungere la figlia amata, prigioniera della morte per troppo tempo. Madre e figlia si ricongiungevano e la sofferenza finiva. Lei non aveva nessuno ad aspettarla, solo un corvo nero che la guardava dal ramo di un albero senza foglie. Il giardino circostante all’ospedale era diventato una gigantesca pozzanghera di fango e la neve sciolta si era mescolata alla terra vuota. Un’anziana era rimasta intrappolata con la carrozzina in quella melma e una donna cercava di liberarla. Aveva riso mentre guardava da lontano la scena. Il suo respiro caldo aveva formato delle nuvolette nell’aria primaverile. Si era allontanata sprofondando con gli scarponcini nelle pozzanghere e le era sembrato che la terra molle la tirasse a sé, trattenendola in quell’Inferno d’amore. Si era pulita le suole contro il tronco di un albero tagliato. Morire per vivere o vivere e inevitabilmente morire?