Una lettera d’amore per il Romagnosi
Data: 3 Giugno 2022
Tag: Racconti
Di: Emma Nicolazzi Bonati
“Tutte le lettere d’amore sono ridicole (…), ma dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono davvero ridicoli “(Fernando Pessoa)
Cari studenti e studentesse, cari eureki, cari professori e, per ultimo ma non certamente per importanza, caro Preside,
in questi cinque anni ho scritto tanto su questo Giornale: ho condiviso con voi la mia indignazione rispetto alla tragica guerra che si sta consumando in Ucraina, mi sono documentata sulla storia della Catalogna, ho tentato di dare voce alla nostra felicità per la prima assemblea che abbiamo tenuto dopo l’interruzione dovuta alla pandemia. Ho scritto tanto, ma mi sono accorta di non aver mai scritto una lettera d’amore. E mi sono anche accorta che, forse, alla fine di questo percorso, l’unica cosa che voglio scrivervi, l’unica cosa che vi posso lasciare, è una lettera d’amore. È ridicolo, lo so. “Tutte le lettere d’amore sono ridicole”, “Ma dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono davvero ridicoli”, scriveva il grande Fernando Pessoa, poche settimane prima di morire, rendendosi conto di aver trascorso la vita a discorrere di Assoluto, Indefinito ed Infinito, ma di non aver mai scritto l’unica cosa che conta davvero: una lettera d’amore, appunto.
Ti ho amato (e ti amo) molto, Romagnosi. Ti ho amato davvero fino all’ultimo respiro. Non che siano stati anni semplici o che in questa scuola funzioni tutto al meglio: come tutti i grandi amori, è stata una relazione difficile, con ampi margini di miglioramento, ma proprio per questo, finora, la più bella. E se c’è una cosa che mi hai insegnato è che la vita ha un senso solo se c’è amore: amore per la vita stessa, amore per le persone che ci circondano, amore per le idee, quelle idee che cambiano il mondo un passo alla volta, amore per lo studio, amore per le scelte, anche per quelle più sofferte, anche per quelle che ci mettono contro tutti. Amore per la fragilità. Amatevi quando vi scoprite fragili, amate la vostra fragilità, amatela tutta, anche quando pensate che sia la causa di tutti i vostri problemi: scoprirete che invece è la vostra più grande alleata, l’unica compagna di crescita che può dare vita ad infinite possibilità.
Amate la vostra giovinezza, la vostra inesperienza, le vostre prime volte, amate quel bruciore dentro al petto che sentite quando in mezzo agli adulti riconoscete di non essere abbastanza preparati, quando un professore parla di argomenti che sembrano impossibili, quando vi propongono un progetto che vi sembra troppo ambizioso per la vostra età. È quello che dovete fare: ciò per cui non siete preparati abbastanza. Solo così imparerete qualcosa di più, solo così potrete sperimentarvi: “C’è bisogno di una prova per conoscersi. Nessuno sa ciò che può se non sperimentandosi” scriveva Seneca. Sperimentarsi con la libertà di sbagliare, di conoscere prima di tirarsi indietro, di percorrere strade che non portano da nessuna parte, se non a capire qualcosa in più di se stessi.
Perché, caro Romagnosi, è anche questo che ci insegni: ad “alzare il capo sopra i gorghi della tempesta di sangue” scriverebbe Sofocle, ad alzare il capo sopra ogni difficoltà e guardarci attorno, perché non importa quante e quanto pesanti difficoltà si possano affrontare, finché la vita è vita, finché le nostre scelte sono determinate dall’amore, ci sarà sempre qualcos’altro, ci sarà sempre almeno un briciolo di bellezza anche nelle tragicità dell’esistenza, come il secondo stasimo delle Baccanti, tanto brutale nelle immagini quanto meraviglioso nello stile. Non possiamo determinare il corso degli eventi, ma possiamo definire come li vogliamo scrivere.
Il trucco è solo distaccarsi un poco per vedere l’intero: come quando non si comprende il senso di una versione, si deve prendere il foglio e allontanarlo un po’ per osservarlo nella sua interezza. Il trucco è solo non chiudersi nella cieca ostinazione, imparare a guardare da un punto di vista altro: come ci insegna l’ “Antigone”, la tragedia non è la complessità, non è l’incertezza della sfumatura, né la vertigine del dubbio, la vera tragedia è l’incapacità di flettersi come il giunco che cinge Dante nel primo canto del Purgatorio. Flettersi per guardare al di là del proprio muro di certezze. Flettersi senza piegarsi, per mantenere se stessi accogliendo gli altri.
Incidete questi cinque anni con le vostre idee, con la vostra cieca determinazione, uscite dalle vostre classi e scoprite quello che questa scuola può darvi. E soprattutto ciò che voi potete dare a questa scuola. Che per quanto a volte a causa del carico di lavoro appaia rigida e pesante, in realtà è un’argilla da modellare. Usate le vostre mani, date il vostro contributo.
Parlate con i vostri professori: possono rivelarsi la più grande fonte di confronto che possiate avere in questi anni, sia che siate d’accordo con le loro opinioni, sia che abbiate punti di vista completamente differenti. E, per favore, andate anche a parlare col Preside, che ha (quasi) sempre la porta del suo ufficio aperta: andate a parlare di come vivete voi la scuola, di quali sono le criticità che riscontrate e quali, invece, i punti di forza. Andategli a parlare di come state qui dentro. Sentite il Romagnosi come il vostro spazio, da curare e migliorare ogni giorno.
E, se non l’avete mai fatto, partecipate ad una riunione del giornalino: sono di parte, è vero, ma credetemi che in quel gruppo eterogeneo di persone che altrimenti, forse, non si sarebbero mai conosciute ci sono ragazzi e ragazze che mettono una grande passione in quello che fanno e che possono insegnare, più “grandi” o più “piccoli” che siano, a vedere la vita da un punto di vista diverso. Non sarebbero stati anni così entusiasmanti ed intensi se non ci fossero stati loro. E di questo bisogna ringraziare col cuore in mano due professori che più di tutti ci hanno supportato e sopportato: la Prof. Savi e il Prof. Padroni. Non vedo l’ora di vedere quante belle cose farete, quanti articoli, progetti ed assemblee organizzerete nei prossimi anni. Basta promettetemi di tenermi sempre aggiornata. E soprattutto promettetemi di continuare a rendere Eureka uno spazio in cui prima di tutto si ama ciò che si fa e lo si ama anche perché lo si fa insieme, perché facendolo si cresce insieme guardandosi negli occhi. In questi ultimi mesi, durante le nostre ultime riunioni, vi ho osservati con più attenzione del solito: non lasciate mai che si spenga quel luccichio che vi squarcia il viso quando alzate la voce per dire ciò che pensate, quando combattete perché volete il cartaceo, quando siete in crisi perché ci sono troppi articoli da pubblicare, quando avete un’idea per una nuova grafica o un nuovo racconto.
Vi ho amato tanto. Ho amato i corridoi pieni di gente, ho amato quel senso di appartenenza che si è acuito gradualmente anno dopo anno, ho amato passare dal ricordarmi a malapena il nome dei miei compagni di classe al passeggiare per i corridoi salutando tutti. Non ho amato le notti a studiare fino alle 2, anche se so che mi mancheranno pure quelle. Ho amato cantare con voi Generale in quel Piazzale della Pace gremito di studenti e studentesse per dire no alla guerra. Ho amato la disordinata organizzazione della notte dei classici, il timore di non riuscire a fare tutto come desideravamo. In fondo, ho amato anche le due pagine bianche del nuovo cartaceo.
Ho tentato di scrivervi una lettera d’amore per ringraziarvi di questi cinque anni, perché, come dice Roberto Vecchioni, una lettera d’amore “è una cosa che manda fuori dall’anima segnali che non sono soltanto parole o flatus vocis, sono praticamente mani, carezze, è come toccare l’altro, toccare la persona che c’è dall’altra parte. Non basta scrivere un diluvio di cose e tentare di capire l’astrazione, il non senso del mondo, se poi non riesci a toccare con una mano una persona”.
Quello che vi auguro in questi anni è di scrivere tante lettere d’amore, di amare tanto, di toccare con mano quante più persone possibili.
Caro Romagnosi, ti abbraccio con tutto il cuore. Spero di lasciarti almeno un briciolo dell’amore che tu hai lasciato a me. E, come scrissi nell’ultimo articolo dell’ultimo numero della mia quarta ginnasio, non è un addio, ma un arrivederci.
Grazie.
Per sempre tua,
Emma