Ucraina, una tragedia senza tempo e le ipocrisie dell’Occidente
Data: 24 Marzo 2022
Tag: Attualità
Di: Emma Nicolazzi Bonati
Il dramma disumano ed indicibile che si sta consumando in Ucraina ci riguarda tutti: “se non è ancora una guerra mondiale, è già una guerra di mondo” sostiene Francesca Mannocchi. E l’Occidente, inizialmente cieco, ora sembra impotente.
Foto di Marcus Yam del giorno 19-20 dall’invasione russa
Grida. Lo tiene tra le braccia un uomo e grida. Non ha ancora l’età per capire cosa sta succedendo, ma piange, piange a dirotto. È una scena straziante quella del bambino ucraino che saluta il padre, vestito in divisa militare, prima che vada al fronte. Il piccolo batte i pugni sull’elmetto, quasi come volesse toglierglielo. Il padre trattiene le lacrime, stringe a sé il figlio, e sotto la tuta mimetica si percepisce un corpo completamente inerme, risvegliatosi nel pieno di un conflitto che forse mai si sarebbe immaginato di combattere. Un Astianatte e un Ettore dei nostri tempi: nessun orizzonte di gloria, solo la cruda miseria di una guerra che devasta affetti, distrugge case, annienta vite. E allora il papà-guerriero diventa il papà-soldato, un papà che prima prende in braccio il figlio, consapevole che potrebbe essere l’ultima volta, e poi con le stesse mani imbraccerà una mitragliatrice. E forse non sa neppure lui esattamente perché. Forse nessuno lo sa davvero.
Ma nella tragedia ucraina non ci sono solo molti Astianatte ed Ettore, ci sono anche tante Adromaca: alcune restano tra le mura della loro Troia, nascoste nei bunker delle metropolitane, serrate nell’unica stanza di casa senza finestre o partorienti in stanze d’ospedali che rischiano di essere bombardati da un momento all’altro; altre, invece, portano via i figli su vagoni stracolmi di persone che più che cercare un nuovo futuro, cercano disperatamente un altro presente. E ci sono pure gli Anchise che i militanti della resistenza ucraina si caricano sulle spalle: solo così possono attraversare i ponti distrutti dalle bombe. I loro occhi sono letteralmente spaesati: sono i volti di chi pur essendo nato, cresciuto e vissuto sempre nel proprio paese, ora si guarda attorno e sa che non lo rivedrà presto, sa che forse non lo rivedrà mai più.
Video dal profilo Twitter di Francesca Mannocchi
Quella ucraina, quindi, è una tragedia prima di tutto umanitaria. E in quanto tale ci riguarda tutti, non solo per il gas, non solo per l’economia, non solo per i migranti che stanno arrivando in Italia, non solo per il futuro dell’Unione europea. Questi aspetti, per quanto siano importanti, sono secondari. E la disperata impotenza che avvertiamo visceralmente sotto la pelle, le parole che non sgorgano tra le labbra, perché le immagini dicono già tutto e più di tutto, sono il culmine della ora più che mai esplicita dicotomia tra il sogno democratico che gli “Stati occidentali” si sono costruiti dal secondo dopoguerra ad oggi e l’attuale realtà dei fatti.
“Questo è un fatto. E i fatti sono la cosa più ostinata del mondo” scriveva Bulgakov, nato a Kiev quando la città era ancora parte dell’Impero russo. Oggi il fatto è che non siamo stati in grado di evitare una guerra, che nel 2022 non siamo stati capaci di trasformare in pratica la retorica autoreferenziale (e cieca) della pace come conquista suprema dell’Occidente. Anzi, ci siamo a tal punto corazzati nella nostra torre d’avorio da negare le evidenze: secondo una fonte diplomatica francese, i servizi segreti americani e inglesi già lo scorso ottobre avevano segnalato a Francia, Germania e Italia “la possibilità di un intervento russo in Ucraina”, come riportato da Jacques Follorou su Le Monde, ma non è stato sufficiente per adottare una strategia comune.
Oggi il fatto è che grazie alle nuove tecnologie possiamo vedere tutto, dagli edifici distrutti ai corpi dilaniati uccisi per strada, ma non siamo comunque capaci di intervenire: in Ucraina, sotto le bombe, è morta anche l’illusoria convinzione che guardare voglia dire sapere e, quindi, anche saper disinnescare. Oggi il fatto è che mentre discutiamo di no-fly zone, di mandare o non mandare armi, di filmare o non filmare i morti, da 30 giorni migliaia di civili innocenti stanno morendo e un’intera generazione di bambini sta nascendo, crescendo o scappando sotto i bombardamenti.
Ma oggi il fatto è anche un altro: il rischio di smettere di parlare dei fatti. “Gli ucraini temono che le loro storie diventino informazione cronica, hanno paura che noi tra dieci giorni ci saremo stancati della nostra stessa retorica” ha esordito Francesca Mannocchi in una delle sue interviste a La7. L’Occidente si stanca in fretta di parlare di guerra. O meglio, si abitua. E non ci pensa più. A volte non ci pensa proprio: sono 59 le guerre in corso nel mondo. Cinquantanove. E non ne parliamo. Non le studiamo neppure a scuola: a stento ne menzioniamo un paio, ma nulla di più. Quello che sta succedendo in Ucraina è forse l’ultima occasione che abbiamo per sostituire finalmente la retorica con un progetto politico concreto di pace, che superi le dinamiche dicotomiche di cui, purtroppo, il nostro presente continua a nutrirsi. Ora che una guerra vicina ci sta timidamente facendo aprire gli occhi sulle reali dinamiche del mondo in cui viviamo, il nostro ruolo, di studenti e studentesse, di professori e professoresse, di cittadini e cittadine, è solo uno: non abituarsi. E per farlo: parlare, riflettere, approfondire, ma soprattutto ascoltare e raccontare le storie di chi davvero sta vivendo le atrocità della guerra sulla propria pelle. E tutto questo è possibile. A meno che, tra qualche settimana, non cominceremo a pensare che, in fondo, anche l’Ucraina non è poi così tanto vicina.
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