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Tello D’Abdera

Data: 21 Gennaio 2025

Tag: Racconti

Di: Giovanni Manzo

Vista la concezione per cui l’uomo è essere centrale del mondo, poiché è l’unico fra i viventi ad avere la ragione, l’intelletto per comprendere quello che c’è effettivamente al mondo, l’unico ente dunque che sa della propria esistenza, del fatto che egli è uomo per via di certi attributi, fa quello che fa non in risposta all’istinto, ma invece come risultato di un ragionamento, pur banale che sia. E poi l’arte, la scultura, l’armonia che esce dalla musica dei flauti, tutto ciò ed altro ancora totalmente dipendente dall’uomo che, a rigor di logica, diviene ente centrale su cui il mondo gira. Dando per scontato che il linguaggio è creazione prima dell’uomo (tutto è nato per forza di cose dopo esso), è forse azzardato dire, visto il concetto detto sopra, che non è la parola a dipendere dall’oggetto, ma anzi che sia l’oggetto a pendere dalla parola? Essendo l’uomo l’unico che sa effettivamente dell’esistenza “d’altro” rispetto a lui, “altro” di cui poi fa studio e ricerca, ebbene si può affermare dunque che questo “altro” non esisterebbe senza la parola a distinguerlo, visto che la parola è invenzione ed espressione prima dell’ente primo fra tutti, l’uomo. La parola come scrigno dell’oggetto che senza di essa non potrebbe esistere, essendo la parola frutto del processo di definizione della realtà la quale, prima della nascita del primo uomo, non era altro che una massa indistinta di cose, una poltiglia priva d’ordine, ordine che vede la sua sede nella parola. Il lessico è fondamentale non solo per la comunicazione di cose, ma per la stessa esistenza di esse. – da un frammento di Tello d’Abdera, V sec. a.C. 

Era un pomeriggio d’estate ed i bambini, liberi dalle loro mansioni, correvano e giocavano per le strade della cittadina. Negli angoli si potevano vedere ragazzi che saltavano la fune, altri che si destreggiavano nel lancio di pietre contro dei bersagli di fortuna, ora delle giare ed ora dei conigli, e da qualche parte si sarebbero potute osservare varie mosche che, cieche, incespicavano con le mani davanti nell’aria nel vano tentativo di acciuffare gli altri bambini. E ancora, i muri bianchi erano imbrattati da vari disegni fatti col gesso, come una casa di una famiglia, i cui componenti erano tutti bambini dei quali i più alti, secondo un’ ovvia logica, assumevano i ruoli di genitori, oppure sulle pareti candide erano disegnati terribili mostri a cinque teste ed otto gambe: non ci si preoccupi di tali creature, poiché tanto perdevano sempre contro l’eroe di turno. In delle viuzze si potevano scorgere gatti col papillon ed altri con delle cuffie da suora, tutti fuggiti dai loro terribili padroncini. “Dov’è? Dov’è!”, “Non mi prendi!”, “Vieni qui”, “Ahia”, “Ah!”, grida, urla, anche il silenzio dei bambini nascosti dietro grandi vasi o rannicchiati sotto delle scale, anche solo il loro debole respiro, quell’euforia bloccata per non farsi scoprire, tutto contribuiva a riempire le vie di un chiasso eccezionale. Passano le ore, il sole tramonta, chi doveva essere scovato nel proprio nascondiglio è stato scovato, ci sono stati vincitori e sconfitti, battibecchi e congratulazioni per le belle partite, le famiglie si sciolgono ed ognuno torna nella propria casa dai propri genitori. “E’ pronto!”, “A tavola, forza!”, si mangia con una certa lentezza, la stanchezza assale i giovani dopo un pomeriggio passato fuori. Si dovrebbe andare a dormire, ma c’è chi ancora ha l’adrenalina accumulata durante le ore diurne. A dormire, questi qua, non ci pensano proprio. E così si esce, ma non per fare graffiti per terra o far planare un qualche aquilone per aria, no, ma ci si reca tutti nelle case degli anziani. Si va lì per sentire quello che hanno da raccontare, ascoltare le loro storie per evadere ancora una volta dalla realtà, come si era fatto con il gioco durante la giornata. Adulti e bimbi in cerchio con al centro l’anziano, un nonno o un conoscente, poco importa, che racconta e viaggia con la parola andando a rispolverare vecchi cassetti dei ricordi polverosi e malandati, ma che riservano al loro interno raggi di sole tanto affascinanti. E tutti ammirano questa luce che esce da quelle bocche screpolate, che parte dalle tonsille e che si fa largo per dei denti storti ed ingialliti dal tempo (sempre che dei denti ci siano). Un silenzio così lo si ha forse la domenica mattina in chiesa, a messa, quando il parroco tenta di tirare fuori dalle scritture tutto il proprio sapere religioso, ma se lì il silenzio persiste per il rotto della cuffia, in queste sedute serali la gente tace ed il silenzio vive per le strade. 

Per una viuzza un bambino corre, “Sono in ritardo” pensa mentre ansima cercando di non cadere. Corre e corre e sbuca così in una piazzetta. Si dirige verso il gruppo che sta ascoltando il vecchio e salta in mezzo ai bambini, facendo il minimo rumore, come una piuma che si adagia sul terreno. “Appena in tempo”, gli sussurra il suo amichetto di fianco, ed il vecchio inizia a parlare. 

“Ah la parola, che cosa affascinante, oh miei fanciulli. Che cos’è la parola? Per piacere non chiedetemelo, ve ne supplico, per carità, perché non saprei proprio da dove cominciare. Cos’è la parola? Non saprei che dire, ma conosco una storia che mi raccontò un mio amico, ormai tanto tempo fa, e’ tiempi e’ matusalemme, direbbe lui, perché sapete, ognuno ha il proprio modo di parlare e in base a come uno parla vede la realtà in modo diverso. La lingua che muta la realtà, esattamente come voi fate con i vostri giochi. La storia me la raccontò mentre eravamo a pesca, me lo ricordo ancora, che spigola grossa pescammo quel giorno! E l’abbuffata di quella sera, mamma mia! Sua moglie aveva cucinato una quantità straordinaria di patate lesse: l’immagine di quella donna che entra nella sala da pranzo con un vassoio grande così di patane non me la scorderò mai. Ce l’ho fissa qui quell’immagine” e si toccava la testa con due dita raggrinzite e lunghe. Parlava lento, facendo fuoriuscire i ricordi uno dopo l’altro. 

“Il racconto era più o meno questo. Dovete sapere che un tempo l’uomo si faceva molte più domande di quante se ne faccia adesso ed in particolare, fra le mille cose, perchè di cose al mondo ce ne sono tante, si interrogava sulla parola. Cos’è la parola? In una terra circondata su tre parti dalle acque, terra di eroi e grandi viaggiatori, in questa terra c’era gente però che di guerra non ne voleva sentire parlare, zero. Preferiva stare all’ombra di un albero, camminare sotto i portici, la testa china e la fronte corrucciata. La tunica al posto dell’armatura, saggezza al posto del coraggio. Ragazzi sto parlando dei filosofi. Voi sapete cosa sono i filosofi? Gente che amava pensare e che pensando mandava avanti la sua vita, però non la vita materiale, ma quella che loro chiamavano “spirituale”, che non si interessa del corpo, ma si occupa dello spirito. I filosofi non erano diversi da voi, ragazzi miei, perché anche loro, come voi a mamma e papà, facevano domande, ma tante, tantissime domande. Vedevano un fulmine e si chiedevano perché squarciasse così il cielo, vedevano un fiore e si chiedevano il perché dei petali, vedevano la felicità e si interrogavano, impazzivano cercando di interrogarsi sul perché, sul cosa renda felice una persona, vedevano un cavallo e si chiedevano perché fosse cavallo e non gatto, guardavano la parola e si chiedevano cosa fosse. Cos’è la parola? Diciamo, ragazzi, che per un periodo essa era l’oggetto osservato. La parola “gatto” rispecchiava il gatto, la parola “solitudine” rispecchiava la solitudine, e così via”. Qui ci fu un attimo di silenzio. Il vecchio dopo aver guardato alle stelle ed aver di nuovo volto lo sguardo a ciascun bambino, riprese a parlare: “Ma quest’idea per cui la cosa fosse la parola, andò poi un giorno in crisi. Un pensatore distrusse questo legame e mise scompiglio fra i pensatori. Cos’è la parola? Non lo so ragazzi, non me lo chiedete, ma quel filosofo lì, di cui, mi spiace fanciulli, non ricordo il nome, definì la parola come una grande “regina”, una grande “dominatrice”. Pensate ad un carro di buoi. Chi è che comanda? I buoi? Il carro? Certo, ovviamente comanda il contadino, e se senza il contadino il carro fa ben poca strada: i buoi vanno dove gli pare ed il carro magari si impantana pure. Maronn’ mi’, ragazzi, quando s’impantana il carro è finita. Ce ne vuole per tirarlo fuori: io una volta ci ho messo tre ore a metterlo a posto. E mio padre, quando lo venne a sapere, giù di botte. Era un uomo buono, ma non tollerava affatto, per nulla, i ritardi. Gli piacevano i canarini sapete? Ne avevamo un paio che ci aveva dato un nostro amico che abitava qui sopra in montagna. Ne aveva uno a cui era molto affezionato, voleva più bene a lui che a me, vi sembra normale?” Il vecchio sorrise, mostrando i suoi denti gialli. 

“La parola era la dominatrice. Bene, dovete sapere, e qui inizia la storia, che un giorno quest’idea capitò nelle mani di un signore, anche lui appartenente a quelli che si ponevano tante e tante domande. Bene, allora lui legge e comprende questa teoria e ne rimane affascinato: la parola è la dominatrice. “Che bello – avrà pensato – La cosa dipende dalla parola e senza la parola la cosa non esiste”. D’altronde il ragionamento non faceva una piega, dato che la parola era la regina indiscussa. Senza il pastore, le pecore vanno dove vogliono, senza il vasaio, la terracotta rimane un impasto, una poltiglia senza forma e senza senso, senza il domatore, l’elefante fa quel che gli pare. Voi sapete cosa sono gli elefanti?” e qui l’anziano viaggiatore partì con un racconto su un viaggio in Asia, la Terra orientale, in una città che gli pareva si chiamasse Babilonia, forse, non era sicuro. 

“Ritorniamo a quel signore che si chiamava Tello d’Abdera, che nome strano! Egli ritenne dunque che senza la parola a farle da capo, la realtà sarebbe stata una massa informe, senza ordine, in cui gli esseri si mischiano con altri esseri, il cane si mischia con la zappa, la zappa si mischia con la felicità, un insieme ingarbugliato di cose e sensi che risulterebbe invivibile e che faticherebbe ad esistere. “L’uomo – diceva Tello – ha dato vita al mondo con la parola mutando la realtà, così come lo scultore crea la statua con lo scalpello modellando la pietra, producendo così l’armonia fra le forme”. Ah ragazzi! Il Doriforo, L’Apollo di Bellavista, il pugilatore, che belle, che belle statue!” e qui fece un discorso sul suo pellegrinare per le città greche, che lì di pesca se ne intendono a meraviglia. “Un giorno allora, convinto di ciò, spinto dal desiderio di salvare la realtà, convinse alcuni dei suoi seguaci, un bel numero a quanto pare,  a seguirlo. Quelli, legate le valigie, con le donne ed i bambini, partirono per la volta di una terra lontana e di loro non si seppe più niente per molto tempo. Se non che un giorno dei pellegrini, partiti da terre ancora più lontane, non portarono notizie di una città davvero strana. E’ lì che il mio amico pescatore venne a sapere di questa storia che vi racconto. Quei pellegrini, gente che di viaggiare se ne intende assai, portarono i resoconti di una città, dicevo, davvero strana: ivi, dicevano, gli abitanti, ogni abitante comunicava con gli altri con una sola parola. Che intendo? Intendo che il fornaio a chi gli entrava nella bottega diceva solo “pane” e magari chi entrava, per esempio, gli si rivolgeva solamente con “tavolo”: una discussione portata avanti a suon di “pane” e “tavolo”, e magari finiva che quello del tavolo si comprava una pagnotta. Gli abitanti comunicavano fra loro così, ognuno con una sola parola a disposizione, una sola parola. “Zappa, zappa, zappazappa, zappa!” “Ciliegia ciliegia?”, “Zappa, zappa!”, “Fuoco!”, “Rabbia rabbia rabbia rabbia”: magari questa poteva essere una discussione, che so ragazzi, fra dei contadini. I pellegrini quando parlavano di questa strana città, apparivano davvero sconvolti ed estasiati, e raccontavano spesso le difficoltà nel capire quello che quegli strani abitanti volevano comunicare. Voi non ci credete, e vi capisco ragazzi, ma vi posso promettere che è così: in quella città ogni abitante aveva a disposizione una ed una sola parola come vocabolario per comunicare con gli altri. Ma so che vi state domandando, quale mai potrebbe essere il senso di una cosa tale, di una città con tali abitanti?”. Scrutava nei volti di ogni bimbo, di ogni adulto, con degli occhi che parevano ringiovaniti, quasi che brillavano: raccontando dei suoi ricordi passati pareva ritornasse egli stesso giovane, emanando gli sprazzi di un’euforia giovanile, ormai passata. 

“Tello aveva paura di perdere tutto. E se mai fosse capitato che le parole sparissero? Che, accidentalmente, si sa le cose capitano e quando capitano bisogna prenderle così come vengono, dicevo, e se mai l’uomo avesse dimenticato di punto in bianco il proprio secolare, millenario vocabolario? Cosa ne sarebbe stato della realtà, del mondo, privo delle corde che lo tenevano insieme? D’altronde, l’abbiamo detto già ormai tante volte, ma, perdonatemi ragazzi, sono vecchio, ed ormai la testa mi dà alcuni problemi, dicevo, è la parola, almeno così la pensava Tello, che con le sue lettere, i suoi suoni, con l’inchiostro con cui è scritta su di un foglio, il gesso con cui è scarabocchiata su di un muro, pur con una calligrafia pessima, una lettera grossa, una piccola, una C che sembra essere una L …voi sapete scrivere? Chi di voi sa scrivere?” Qui alcuni alzarono le mani, due adulti e tre bambini. “Perfetto, io ho imparato a scrivere all’età di vent’anni, quando mio padre volle vedermi su di un carro a fare la vita da mercante, dopo aver passato gli anni della gioventù con una vanga in mano; quanto gli sono grato per ciò! Mazzat’a cecate, giù di botte se scrivevo male!” “Per la paura che la realtà che aveva sempre conosciuto finisse, Tello prese una decisione banale quanto geniale, perché, ricordate, nel nido della semplicità sono covate a volte le uova che daranno i pulcini migliori. Affinché le parole continuassero ad esistere, Tello ebbe la geniale idea di affidare ogni termine ad un, come chiamarlo, “custode”, che se ne prendesse cura, proteggendolo dall’inarrestabile galoppata del cavallo ancestrale, che noi chiamiamo tempo. Ogni custode avrebbe conservato la propria parola non con degli strani riti giornalieri né affidandosi a qualche entità divina, quanto più attraverso la quotidianità, cioè facendo sì che il vocabolo diventasse l’unico del proprio parlato, affinchè questo non cadesse mai nell’oblio della dimenticanza. 

“Come venivano assegnati i termini? Da quello che ricordo non c’era una così grande cerimonia, almeno da quello che mi raccontò il mio amico pescatore, che era riuscito a trovare delle informazioni in più rispetto a me, sapendo lui scovar meglio di me i tesori che si celano in dei libri polverosi o in dei racconti di vecchi viandanti: una volta ne incontrò uno che aveva più di cento rughe sulla faccia! Rimane ragazzi, che Tello i termini li assegnava come capitava, “Tu sarai fazzoletto, e tu sarai giardino”, così, molto semplicemente. Alle prime fu difficile proseguire questa strana vita, pensateci, come mai si può campare a questo mondo in una simile condizione, senza cioè quello che più è caro a noi uomini, ciò che poi ci contraddistingue dal semplice animale, il sapere ed il voler comunicare come stiamo, cosa vogliamo, ma anche soltanto i bisogni più semplici e banali, “Ho fame”, “Ho freddo”, “Ho bisogno di te”, “Ciao, comm’ staie?”. Che mondo! Ebbene però, e forse sta qui la straordinarietà della storia, Tello convinse quegli uomini e donne, più o meno con le stesse parole che vi ho detto prima, ovvero che la parola è il catenaccio che tiene insieme unita la realtà che conosciamo e anzi, è fonte, origine di tutto e tutti, e loro, i futuri abitanti della sua città, sarebbero stati i custodi, i protettori di tutto questo. Uniteci un carisma eccezionale da parte di Tello, e otterrete come il semplice contadino, il povero allevatore o lo sfortunato mendicante, gente che dalla vita non si aspettava nulla di più che non la semplice monotonia e la tranquillità, ecco, immaginate come si dovettero sentire davanti a questo compito di estrema importanza. Si sentirono importanti, prescelti, dopo una vita passata ad essere parte di quella fetta di popolazione che cade nel dimenticatoio della gente, quella fetta di popolazione ritenuta priva di qualsiasi interesse, noiosa. E’ ovvio che questi “signori nessuno”, per così dire, furono allettati dall’idea di svoltare la propria vita, di diventare qualcuno, mattoni anch’essi della più grande casa che ci appartiene, il mondo. Accettarono, forse ragazzi, dopo neanche tre secondi, ambressa ambressa, mi disse il mio amico pescatore. E così, ragazzi, si ritrovarono tutti a vivere lì, fra quelle mura, tutti con la propria parola, il proprio compito. Per il resto la città era  come le altre: strade, viuzze, case in mattoni, magazzini, stalle, se non per certi cartelli dal significato assai ambiguo, come “Metallo, metallometallo”, e ancor più ambiguo il bottegaio che c’era dentro, che ad eventuali domande avrebbe risposto “Metallo!” porgendo magari un erba aromatica” Da quando aveva iniziato a raccontare, al pubblico del vecchietto si aggiunsero circa una decina di persone, attirate dall’aura quasi sacra che si era andata a formare intorno a quelle parole, quei racconti che avevano del tutto catturato gli spettatori: gli adulti con le braccia incrociate, gli occhi fissi a veder quelle labbra che si muovevano, i bambini in prima fila rimasti con gli occhi spalancati verso l’alto a vedere quel volto raggrinzito. Ad alcuni colava un filino di bava dalle bocche aperte. Anche quando smise di parlare, il silenzio continuava a permanere nell’ambiente. Finché, uno dei bambini spinto dalla curiosità, ma anche dal capriccio di ottenere tutto ciò che è oggetto di desiderio, chiese, con una puntina di insolenza, “E poi?”. Il vecchio riprese a parlare, conscio che del maiale agli invitati bisogna servire tutto: “E poi, ragazzo mio, fai bene a chiedere, la storia mica finisce bene. Dovete sapere che era previsto, ovviamente dato che non siamo eterni, anche una sorta di rito di passaggio della parola, per passarla da un custode, che per mille motivi poteva aver lasciato questo mondo, ad un altro. Se ne occupava Tello in persona, che solo in quella occasione si permetteva di trasgredire la sacra regola della, come chiamarla, della “monoparola”, usando la formula “Tu da adesso sarai” più la parola da passare. Ciò avveniva soprattutto di padre in figlio, il quale doveva avere almeno 12 mesi di vita. Davvero piccoli! Lo so che vi sorprende ragazzi, ma alla fine dei conti tutto torna: è a 12 mesi che il fanciullino, come anche voi faceste, inizia a poter effettivamente parlare, con poche parole sì, frasi ancor molto semplici, ma in una città dove basta una parola, va più che bene. E così si vedevano neonati che per rivolgersi a papà dicevano “Fogna!”, oppure “Pesce!”. Bene, ma voi mi avete chiesto come tutto ciò finì, ed eccovi accontentati. Questa città s’era fatta una certa fama e quindi attirava verso di sé molti curiosi che da ogni parte giungevano per incontrare questi strambi custodi. In più l’abitato sorgeva lungo una via di pellegrinaggio, quindi ogni mese, per non dire ogni settimana, alle porte si presentavano decine e decine di pellegrini che chiedevano alloggio. Tello, lì per lì, non capendo l’errore, non vedeva nulla di male a farli entrare, purché rispettassero gli abitanti e la loro strana usanza. Per avvertire di ciò c’era pure un cartello al portone per entrare, che bene o male sentenziava “Ad ogni uomo la propria parola”, ma che a quanto pare era stato scritto da uno degli abitanti e quindi appariva con su scritto “gamba gamba gamba gamba gamba gamba”. Ma chi vi passava, per qualche strana ragione, forse già avendo appreso la storia e colpito dalla straordinarietà della cosa, comunque intendeva il succo: chi entra non deve cambiare nulla. Accadeva un po’ come, oh miei fanciulli, quando si trova un bellissimo fiore che si può ammirare, ma assolutamente non toccare né tanto meno strappare, vista la fragilità: nasce un istinto di protezione, di premura verso di esso, il quale è bello, ma anche tanto debole. Insomma i pellegrini la regola la rispettavano, parlavano normalmente certo, ma non davano più fastidio del dovuto. A non rispettare la sacra regola furono gli abitanti. Cosa li spinse a gettarsi dalla barca? Ovvio ragazzi miei, i pellegrini stessi, che li catturavano con le loro parole, non tanto per il significato, quanto più perché erano l’una diversa dall’altra. Li ammaliava la copiosità di termini presenti in una stessa frase e s’accorgevano di come loro fossero in confronto assai poveri: volevano anche loro insomma, poter dire di più di una semplice parola. Questo capitò soprattutto ai coloni originari, i quali si ricordavano di una vita passata, certo normale, certo da disgraziati, ma almeno ricca in quello che a tutti gli uomini spetta di diritto, il comunicare con l’altro. Ma capitava similmente anche a chi là c’era nato e cresciuto, i figli dei coloni originari, i più giovani, di età come le vostre, i bambini, i ragazzi, i quali invece rimanevano affascinati davanti ad un mondo tanto diverso, tanto variopinto: come in cerca di fortuna, seguivano questi pellegrini, verso questa terra santa, l’esterno delle mura, il mondo, spinti verso l’ignoto. Tello si trovò davanti un vero e proprio disastro: i suoi abitanti se ne stavano andando via, chi su di un carro di alcuni viandanti, chi fra le braccia della ben più nera morte. La gente spariva, e i sostituti si facevano ogni giorno di meno. Per di più, forse portata da uno dei viandanti che avevano visitato la città, ecco che la popolazione iniziò ad essere colpita e sconvolta da una strana cosa, priva di spiegazione, ma che scatenava la morte per le strade: Tello non aveva mai pensato di dare ad un custode la parola “peste”, e davanti a questa morte gratuita e vasta che imperversò tra i cittadini provò la più sincera e profonda paura. Ah, la peste! I custodi, morendo o partendo via, poco importa, si portavano appresso la propria parola, custodita per tanto tempo con una certa gelosia. E come detto, di sostituti ce n’erano pochi: finì che iniziarono ad esserci più parole che custodi, e questa fu la fine. “Tello iniziò a prendere misure drastiche. Se non c’era più il custode, e quindi non c’era più la parola, l’oggetto corrispondente non poteva più esistere. Morto quello del “vaso”? Bene, ecco che tutti i vasi venivano frantumati per le vie della città. Sparito quello di “camini”, ecco che venivano tirate giù tutte le varie fummarole dalle case. Perse le tracce del custode della parola “legno”, ecco enormi falò, veri e propri incendi disseminati qua e là che per poco non distrussero tutta la città. In compenso, per questi enormi fuochi, morì molta altra gente. Morto quello di “cenere”, si dovette spazzare via tutta quella che si era creata, scomparso quello di “coccio”, si dovettero raccogliere tutti i resti dei vasi distrutti in precedenza. Menomale che quello di “scopa” ancora non se ne era andato, sinnò vir’ che tarantella! E non vi dico cosa accadde quando partirono, mi pare tutti su un unica carovana di pellegrini, i custodi di “cane”, “gatto”, “pecora”, “mucca”, “cavallo”, “rana” e mi sembra pure “formica”: una vera e propria carneficina. La città stava diventando invivibile. Uno dei figli di Tello, “mura”, partì anche lui appresso ad un mercante che aveva tentato di vendere alcuni enormi giare, ma che era stato respinto con non poca veemenza dallo stesso Tello in persona. Partito il figlio, le mura dovettero essere abbattute: Tello davanti ad esse provava una tale sensazione di sconforto e smarrimento che, si dice, non riusciva a dormire la notte e ogni volta che le avvistava, entrava in escandescenza ed iniziava a disperare con le dita che gli si affondavano nelle guance, così. Il colpo di grazia fu la morte per stenti del protettore del vocabolo “casa”: della città non rimanevano che porte, scale, pozzi e pochi abitanti, che per disperazione uno dopo l’altro se ne andarono. Tello, alla scomparsa del ragazzo di “amore”, forse rapito da uno dei viandanti, aveva iniziato ad essere talmente apprensivo da risultare insopportabile: nessuno poteva provare affetto! Lui stesso ripudiò la moglie tanto amata, provando disgusto per i sentimenti che provava, facendoli sprofondare nel mare profondo, come ne ho visti io, dove lui stesso stava annegando. Via quello di “pozzo” e poof, tutti a riempire le fosse, e via quello di scale e poof, tutti a sfilare giù scalini, e via uno di là ed uno via di qua ed insomma finì che non rimasero che lui e la moglie. Ah la moglie! Che donna, che donna! Valla a trovare una così. Una ragazza, ma di un gentile, tanto gentile che un uomo malvagio, ma malvagio davvero, come quello che ho visto ad Argo, in Grecia, ecco neanche gente come lui, che non vi sto qui a dire le sue malefatte, neanche un uomo maligne come lui, vedendola, può anche solo pensare a qualcosa di cattivo. Una donna bellissima, ‘na pupatella, di quelle che ci sognamo noi sognatori di notte. Aveva seguito Tello perché ne era innamorata, innamorata persa per un uomo tanto strambo. Ah ma ragazzi, l’amore acceca, acceca come un moscerino che ti entra negli occhi e che non vuole uscire. Non mi chiedete che passi per la testa di un innamorato, che queste cose le sa solo colui che ne cade vittima; io a forza di viaggiare, ho avuto poco tempo per innamorarmi.

“E pensate un po’ se questa donna tanto bella, non ricevesse altra parola se non “morte”, che buffa può essere la vita! “Fato” alcuni chiamerebbero questa strana piovra che manovra l’uomo con i suoi lunghi tentacoli di stelle. Ebbene però, l’amore, seppur tanto forte, non può nulla contro l’inchiostro di questo gigantesco polpo, e quando le cose devono capitare, così deve andare. Ella morì per stenti, ma soprattutto per dolore, il dolore che si prova dell’essere abbandonati, lasciati soli in un mondo che pare così strano, così diverso, privo come è rimasto del cardine centrale, l’albero maestro da cui tutto dipendeva, l’amato o l’amata che, ignaro o meno, portava sulle spalle l’incombente peso di una vita altrui. Ella morì allora, naufragata, lasciata sola in mezzo al mare, e con lei morì la morte. Tello, il custode di “vita”, si trovò solo. Anzi no, si trovò in un limbo eterno, dove ormai la realtà era per lui del tutto sparita, ma che agli occhi risultava ancora lì, presente nei fili d’erba, negli alberi, nel cielo e nel vento che sfiorava i capelli. Era presente in quei viandanti che ancora passavano e si stupivano di trovare di quella grande e famosa città, solo un abitante, che sbraitava dicendo che non poteva morire, ma che al contempo non poteva essere. Poteva solo vivere, diceva, e sapete l’unica cosa che lo mandava avanti? Il fatto che neanche lui sapesse cosa significasse. Era perso nel mondo che non pensava potesse continuare ad esistere, che continuava a permanere nonostante  la disfatta della sua logica. Immerso in questi pensieri, ragazzi, girovaga ancora oggi per quei campi, correndo come un pazzo, un forsennato, sempre in cerchio eternamente, privo com’è rimasto della morte. Un uomo che può vivere, sebbene  non possa morire. Ma cosa sono tutte queste cose, la vita, l’essere, la morte, oh fanciulli?”. Ma abbassando gli occhi al suo pubblico vide un po’ di fanciulli che, chiusi gli occhi, erano immersi in avventure, sogni di eroi e gatti parlanti, storie che lui neanche poteva immaginare. E quindi preferì finire la sua storia, lasciare che i genitori portassero i bambini a casa, reputando che quelle cose fossero molto più interessanti delle sue passate.

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