Signal
Data: 12 Gennaio 2022
Tag: Racconti
Di: Elena Mora
[Immagine: Summertime 1943, Edward Hopper]
Primo giorno
Alzai distrattamente lo sguardo dal Signal.
Giusto un paio di secondi, appena sufficienti per inquadrarlo nella mia visuale.
Si stava dirigendo verso di me.
Posai sulle gambe il giornale, cercando di non far notare la piega che avevo fatto. Si diceva che
tenesse moltissimo alla cura degli oggetti, oltre che delle persone.
Come un forsennato, continuai a lisciare la piega, finché non mi parve un risultato soddisfacente.
Si diresse verso di me con un sorriso elegante, così come elegante era il suo modo di vestirsi, di
camminare, di esistere. Era una presenza rassicurante.
Questo era quello che si diceva, perlomeno.
Si fece a pochi metri da me. A questo punto, era inevitabile che mi rivolgesse la parola.
Mi squadrò per un attimo, inarcando il sopracciglio.
“Martin Brönte?”. Avevo sentito almeno un milione di volte la sua voce alla radio, alla televisione…
Faceva uno strano effetto dal vivo.
Mi ricordai troppo tardi di fare il saluto. Battei i tacchi e alzai la mano destra, il palmo della mano
rivolto verso di lui.
“Sissignore, sono io.”
“Posso sedermi?”. Questa era decisamente una domanda retorica. Nonostante tutto, sembrava
che aspettasse la mia risposta.
“Certamente, signore.”
Si sedette. Faceva una strana impressione, perché, da seduto, era alto quasi come me. Non potei
fare a meno di notare la sua gamba. Una ferita di guerra, dicevano.
Quell’uomo era un eroe. Mi trovavo a venti centimetri da un eroe.
Non riuscivo a staccare gli occhi da lui, che pareva divertito dal mio atteggiamento reverenziale un
po’ troppo forzato. Il punto era che non avevo la più pallida idea di come comportarmi.
Fissò la stazione, intorno a noi, che esalava fumi grigiastri che avvolgevano tutto.
Persone che andavano e venivano, voci, aquile ricamate sulle bandiere da tutte le parti. Mi
soffermai su una madre, che trascinava il figlio verso il treno, mentre questi si perdeva con lo
sguardo su ogni cosa.
“Buffo, no?” mormorò lui.
“Sissignore.” Non capivo se le mie risposte lo infastidissero o lo compiacessero. Probabilmente
entrambe le cose.
“Tante famigliole tedesche che prendono il treno per andare in vacanza…persone che nemmeno si
conoscono, unite da un unico credo.” Si voltò verso di me. “Ma io non sono venuto qui per
raccontarle una favola.” Aggiunse, dopo un po’. “Il tempo delle favole è finito da molto tempo, per
me.”
“Anche per me, signore.”
“Il signor Himmler mi ha riferito che gli sei stato prezioso.”
Era vero. Avevo lavorato per lui, in qualche occasione. Ogni tanto ricevevo una lettera, in cui mi
convocava e mi assegnava qualche compito.
Io non mi definirei una spia. Sono soltanto una di quelle persone con cui la gente sente il bisogno
di confidarsi. E, quando si confidano con me, tendo a non mantenere i segreti.
Non è colpa mia. Che ci posso fare, è il mio lavoro. Mi pagano per questo.
“Io ho un problema.”
“Mi dispiace, signore.”
“No, non devi dispiacerti, devi risolverlo.” Il suo tono di voce si alzò un poco. I suoi occhi colpivano
i miei come frecce appuntite. Continuò:
“Nel mio ufficio, sai…ci sono tante persone. Generalmente fidate, vedi…non che ci si possa fidare
troppo, di questi tempi. Comunque sia, sono tutti efficienti e preparati, perché con me lavora
soltanto chi sa fare il suo mestiere.” Non sapevo se prenderlo come un complimento o come una
minaccia.
“Ora, c’è una ragazza…Liesel Kober, è una delle migliori dattilografe. Ed è strana, Martin.
Veramente strana. Vorrei che investigassi su di lei. Il mese scorso c’è stata una fuga di notizie dal
mio ufficio e ho bisogno di capire se questa donna c’entra qualcosa.”
“Io…”
“Ti pagherò bene.”
Avrei dovuto dirgli che non potevo. Mi stavo occupando a tempo pieno di un caso che mi aveva
affidato un certo signor Fischer, eppure…non potevo dirgli di no. Non potevo.
“Grazie, signore. Le assicuro che riuscirò a scoprire qualsiasi cosa le interessi sulla ragazza.”
Lui sorrise, il volto più limpido. Si guardò intorno, osservò il treno partire.
“Bravo, Martin. Mi raccomando, tienimi informato.”
Si alzò, frugò nelle tasche e mi diede un bigliettino.
“Questo è l’indirizzo del mio ufficio. Vieni a disturbarmi quando vuoi.”
“Grazie, signore.”
“Conto molto su di te.”
“Grazie, signore. A presto, signor Goebbels.”
“Ciao Martin.”
Lo fissai, mentre si allontanava fra gli sbuffi del treno. Lo persi di vista in pochi secondi, inghiottito
dalla frenesia della stazione. Ammirai il bigliettino da visita, lo piegai e lo misi in tasca. Poi, ripresi il
Signal e continuai a leggere.
Secondo giorno
Uscii di casa verso le sette e mi fermai a fare colazione in un locale poco frequentato. Pagai il
misero conto e mi avviai di buon passo verso l’Ordenspalais.
Era un edificio imponente, di architettura prenazista, affacciato sulla Wilhelmplatz. Era un quartiere
che non conoscevo particolarmente bene, così mi fermai alla prima panchina che mi capitò di
trovare. Aprii il Signal e finsi di leggere.
Quella copia l’avevo letta quante?, venti volte? Possibile, forse di più.
Il mio sguardo tornò, per l’ennesima volta, sull’immagine di una perfetta famiglia ariana in
compagnia di un cane.
Proprio quando la testa mi stava iniziando a girare, tante volte avevo posato lo sguardo su quelle
righe, intravidi una giovane donna camminare di buon passo verso l’ufficio del mio capo. Aveva i
capelli biondi, indossava un vestito bianco, ma non riuscivo a intravedere gli occhi.
Era esattamente la stessa ragazza che avevo visto affacciarsi, la sera prima, dalla finestra della
casa di Liesel Kober.
La vidi entrare di malavoglia nell’edificio. La ragazza sospirò, poi sparì dalla mia visuale.
Aspettai circa dieci minuti, poi mi alzi, piegai il Signal e me ne andai.
Quella sera, la vidi uscire. Sostò per un momento all’ingresso dell’edificio, come se avesse
dimenticato qualcosa e stesse cercando di capire cosa. Poi, si calcò sulla testa un cappello a tesa
larga, incrociò le mani dietro la schiena e s’incamminò da qualche parte.
Appena svoltò l’angolo, corsi nella sua direzione.
Il buio di Berlino c’inghiottì, mentre il mondo usciva dalle case e si riversava in strada.
Liesel camminava veloce, io più di lei. Spintonai uomini e donne, cercando di non perderla di vista,
mentre mi pareva che un muro di persone si volesse contrapporre di forza al mio scopo.
Stavo per affogare in quel mare di occhi e corpi, la stavo per perdere.
Quando finalmente riuscii a farmi spazio fra la gente, quando i miei piedi iniziarono a correre più
veloci, fu allora che lei sparì, nel buio della sera.
Terzo giorno
Il Signal picchiava contro la stoffa dei miei pantaloni.
Non l’avrei persa, oggi no.
Le stavo a pochi passi, ma abbastanza lontano perché lei non si accorgesse di me.
Camminava veloce, come se non avesse avuto abbastanza tempo, o come se ne avesse avuto
troppo, senza sapere come impiegarlo.
I suoi capelli biondissimi le ricadevano mossi sulle spalle, riflettevano gli ultimi raggi del sole.
Un’automobile passò fra me e lei, io quasi mi feci investire, ma non volevo perderla, stavolta.
Recuperai in poco tempo i passi di cui il passaggio dell’auto mi aveva privato.
Girò l’angolo. Io la seguii.
Sbucammo in una stradina triste e grigia, dove ogni passo che facevamo sembrava rimbombare
all’infinito. Mi tenni a debita distanza, passando dietro a una fila di automobili parcheggiate,
cercando di sparire.
La ragazza si avvicinò ad un locale.
Non c’era nessuno, solo un paio di tavolini vuoti e un filo di vento che sollevava le tovaglie.
Liesel si sedette, ed iniziò ad aspettare. Muoveva frenetica il piede, si passava fra le dita una
ciocca dei capelli biondissimi…
Il cameriere arrivò e lei disse qualcosa che non percepii.
Un vassoio con un bicchiere stracolmo fece la sua apparizione sul tavolino. Lei ringraziò, poi si
mise a bere, lentamente.
Dopo il vassoio, arrivò un uomo.
Con l’uomo, arrivarono le carte.
Liesel e il misterioso sconosciuto cominciarono a dividersi le carte, a pescare dal mazzo, che
diventava sempre più sottile. Ciò che più mi colpì fu che nessuno dei due proferiva alcuna parola.
Passò del tempo, forse una dozzina di partite.
Non un cambiamento d’umore sui volti, nonostante la ragazza stesse perdendo tutti quei soldi.
Ogni volta, prendeva dal portafoglio una consistente quantità di marchi e li allungava al compagno.
Notai che vinceva soltanto lui.
Quando capii di avere visto abbastanza, me ne andai, mentre i miei pensieri facevano eco più dei
miei passi.
“Lo so che ti avevo detto di disturbarmi a qualsiasi ora. Però, vedi…”
Non aveva ancora alzato gli occhi dal foglio che stava esaminando. Allargò la mano, come a dirmi
di aspettare un momento. I suoi occhi correvano veloci lungo le righe della pagina.
Quando sembrò essere soddisfatto, rivolse finalmente lo sguardo verso di me.
“Scusami Martin, ho molto da fare.”
“Sissignore, mi scusi, signore.”
“No aspetta.” Parve ripensarci. “Credi che sia qualcosa di importante, ciò che mi devi dire?”.
Io non sapevo che cosa rispondere. Cercai di cavarmela con un banale “Dipende”.
Lui scosse la testa, appoggiò il mento al pugno chiuso e disse: “Odio tutte le risposte che non sono
né sì né no. Siediti, forza.” Indicò la sedia davanti alla scrivania. “Forza.”
Come spesso mi capitava nei suoi confronti, non riuscivo a capire se fosse un’intimidazione o un
incoraggiamento. Fatto sta che mi sedetti, e i suoi occhi mi diedero il permesso di cominciare a
parlare.
“La signorina Kober frequenta un uomo, con cui si trova a giocare a poker, o similari.”
“Se vuole buttare via il denaro con cui la pago, non è problema mio, Martin. Hai qualcosa di
meglio?”. Continuava a lanciare sguardi a quel foglio…mi tornarono in mente tutte le parole
rabbiose che avevo sentito dalla sua bocca alla radio e mi chiesi se fosse cosa saggia rubargli
tempo prezioso e infastidirlo.
“Signore, curiosamente, vince soltanto lui. E la partita, a parer mio, si svolge in modo strano.”
Non lo stavo interessando. Dovevo trovare qualcosa che lo interessasse…
“Sembra che abbiano qualcosa da nascondere. Potrei giurare che stiano facendo di tutto, a parte
giocare a poker.” Goebbels mise una mano sulla mia spalla, riflessivo.
Tossì un poco, poi mi disse: “Vedi di indagare, allora. Domani non sono in ufficio, quindi non venire
a cercarmi.”
Questa mi sembrava decisamente una minaccia.
Quarto giorno
“Certo che conosco Liesel. Perché?”.
Il salotto di Sofie Schmidt era un’esplosione di allegria, proprio come la proprietaria. Era una
ragazza sui venticinque anni, dal viso pulito, senza essere particolarmente bello.
“Diciamo che sto cercando una segretaria per il mio ufficio…”
“E vuole conoscere qualcosa di più su di lei, vero?”.
“Sì, diciamo di sì.”
Si sentì un gemito provenire dalla stanza accanto. Sofie si alzò di scatto, dandomi le spalle, e
corse a prendere un bambino avvolto in un batuffolo di cotone.
“Mi scusi, non dorme mai…” Il piccolo emise un altro verso, poi chiuse le mani a pugno e
s’immobilizzò, improvvisamente, mentre Sofie continuava a cullarlo.
“Lo sa, lei, dove lavora Liesel?”.
“Sì, mi è giunta voce.”
“Sarà praticamente impossibile toglierla dal Ministero.”
“Io sono disposto a pagarla molto bene.”
“Ah, di questo ne sono certa!” Sofie scomparì per un momento e, quando tornò, il piccolo non c’era
più. “Liesel è una persona meravigliosa. Efficiente, simpatica…è brava, nel suo lavoro.”
Mi risuonarono nella mente le parole di Goebbels.
“Mi interessa più che altro conoscere qualcosa sulla sua vita privata…sa, non vorrei avere
problemi…”
“Liesel è pulita.” Non sembrava intenzionata ad aggiungere altro.
“Sì, certo…intendo…”
“Ci si può fidare di lei. Si concentra sul lavoro e non ha altro per la testa.”
“E lei, queste cose, le sa perché…”
“Perché sono vere.” Mi parve opportuno arrendermi. Insistere sarebbe stato sospetto, così come
sospetta era la laconicità della donna.
“Sarà meglio che vada e…ah, non le dica che sono venuto. Alla signorina Kober. Spesso, i
dipendenti non gradiscono questo genere di indagini, ma sono necessarie. Spero che mi capisca.”
“Lo sa che non verrà mai da lei, vero?”.
“Perché è legata al Ministero?”.
“Oh, no.” Le mie orecchie si drizzarono. “Liesel non è entusiasta di lavorare per loro, ma vede…è
difficile portare via una dattilografa efficiente come lei. Là dentro c’è gente che le può rendere la
cosa impossibile. Questo, però, mi sembra lo sappia già.” osservò la ragazza.
Sì. Lo sapevo.
Ormai ero al locale da un’ora e pensavo non sarebbe arrivata mai. Invece, eccola lì, la strega
travestita da principessa, con il suo cappello a tesa larga che le gettava un’ombra intensa sugli
occhi. Lo tolse, lo poggiò sul tavolo.
Poi, tirò fuori la scatolina delle carte. L’appoggiò sulle gambe, pronta a metterla sul tavolo, una
volta fosse arrivato il suo misterioso compagno di gioco.
Mi lanciò uno sguardo distratto, mentre io mescolavo il ghiaccio nel bicchiere ormai vuoto.
Cosa stava pensando, sotto i capelli biondi? Aveva qualcosa da nascondere, oppure era soltanto
la mia immaginazione che le faceva spuntare una ruga sulla fronte, il sudore sul collo pallido come
la neve…?
Mi feci avanti, e le rivolsi la parola: “Vedo che ha delle carte.”
Lei fu scossa da un brivido. Non si aspettava che le parlassi. Cercò di riprendere il contegno e
annuì, stringendole al petto.
“Lei è sola, io sono solo…potremmo essere soli in due. E giocare. Sono piuttosto bravo, soprattutto
nel bluff.”
Lei sorrise, mentre la tensione le si accumulava negli occhi.
Presi il posto dello sconosciuto e la fissai negli occhioni da cerbiatta. Aveva paura di me, eppure
questa cosa, chissà come mai, mi divertiva.
“Se mi dà le carte, mescolo.”
“No!”. Il suo braccio ebbe uno scatto. Poi, accorgendosi del suo comportamento, tenne gli occhi
bassi e si scusò: “Cioè…io sto aspettando qualcuno.”
“Facciamo soltanto una partita. Quando arriva il suo amico, io me ne vado.”
Alzò lo sguardo, e da cerbiatta si tramutò in una fiera leonessa. Posai il mio Signal accanto al suo
cappello, mentre lei tirava fuori le carte. Me le porse.
“Mescoli.”
Questo non me l’aspettavo, a dire la verità. Presi le carte e iniziai a mescolarle, cercando di
intravedere qualche segno, qualche piega particolare…e invece nulla.
Erano normali carte da poker.
“Però, facciamo senza soldi.”
“Senza soldi è noioso.”
“L’ha detto lei, che è un ingannatore. Preferisco non rischiare.”
“D’accordo.”
Avrebbe fatto meglio a rischiare, perché vinse lei, con un tris, contro la mia misera doppia coppia.
Le sue mani si muovevano veloci come gazzelle, le sue dita parevano cavalli al galoppo.
Il suo viso, una goccia di rugiada.
“Bella partita.”
“Già.”
“Ne facciamo un’altra?”.
“Ehm…il mio amico.”
“Oh, ma certo. Comunque, è stato un piacere conoscerla.”
Lei sorrise: “Anche per me. Mi chiamo Liesel.”
“Io Joseph.” Fu il primo nome che mi passò per la testa.
Ci facemmo un cenno, poi io tornai a chiamare il cameriere per pagare il conto.
Lungo la strada, incrociai il tanto atteso giocatore.
Chissà perché, non me ne importò niente.
Quando rientrai a casa, trovai mio fratello seduto al tavolo. Si era messo davanti una bottiglia di
scotch e il fatto che fosse mezza vuota non mi confortò.
Notai che la barba gli stava crescendo e che, di lì a poco, avrebbe nascosto completamente il
sorriso. Non che sorridesse molto, a dire il vero.
Mi chiesi se il suo comandante l’avesse mai visto in quelle condizioni pietose.
Non osai nemmeno immaginare la violenza e la ferocia che riversava su quei poveretti, quando
aveva alzato troppo il gomito. Dicevano che fosse uno dei migliori: e questo significava essere uno
dei più cattivi. Provava una profonda avversione per quella gente, anche per i bambini.
Non gli avevo mai chiesto in che cosa consistesse, veramente, il suo lavoro. Non ci tenevo a
saperlo. Del resto, per quanto ne sapeva lui, io vivevo ancora dell’eredità di nostro padre.
Thomas aveva sempre odiato gli esseri umani, in generale, specialmente le persone più deboli e
indifese. Ricordavo gli anni passati a Monaco, quando il Fuhrer stava per salire al potere e mio
fratello imbracciava il fucile, come una sentinella per le strade, pronto ad adempiere al compito
che, secondo lui, il Reich gli aveva destinato.
Io ero più teorico: certi precetti del nazismo li assimilavo, senza metterli troppo in pratica.
Ora che Thomas era davanti a me, mi accorsi che non lo volevo.
Doveva andarsene, doveva andare via…subito.
“Che ci fai qui?”.
“Passavo. Non sei felice di vedermi?”.
“No.” Mi avvicinai alla sua sedia, impaziente.
“Sono un eroe della nazione. Devi portare rispetto.” E giù, in una risata sguaiata, senza motivo.
“C’è un motivo per cui sei venuto?”.
Lui mi fissò, gli occhi stralunati. “Calma, fratellino, calma.” Mise un dito sulla fronte e chiuse gli
occhi, quasi stesse riflettendo. “Mi hanno dato qualche giorno libero…non volevo passarlo in
Polonia, laggiù c’è un freddo che non t’immagini…io non capisco come facciano quelli a
sopravvivere, tutti nudi…”.
Odiavo i cenni criptici al suo lavoro, così come odiavo le parole sprezzanti che usava contro quelle
persone. Nonostante tutto, provavo uno strano senso di compassione per loro. Erano donne,
bambini, anziani, uomini magri come stecchi senza un futuro…non amavo infierire su una sorte già
segnata.
“Dimmi il vero motivo per cui sei venuto qui.”
Alzò gli occhi. “Come sei noioso, Martin…d’accordo, d’accordo. Sono venuto ad arrestare qualcuno
e hanno richiesto la mia presenza al processo. Processo…quella non avrà un gran che con cui
difendersi.”
“Sei capace di dire qualcosa chiaro e tondo?”.
Gettò la testa all’indietro. Pensai che si sarebbe messo a ridere, ma rimase serio.
“Abbiamo trovato una talpa nel Ministero della Propaganda.” A quelle parole, il mio cuore sussultò.
Cercai di connettere tutti i fili del mio cervello, e ognuno di quelli si mescolava agli altri, formando la
silhouette di una ragazza bionda, forte come una leonessa, agile come una gazzella.
Mille altri pezzetti ricostruivano il volto di Goebbels, e non riuscivo a capire se le parole che gli
avevo detto erano state sufficienti a farla incriminare.
Cosa era successo? Che cosa non sapevo? Odiai mio fratello con tutto il cuore, odiai quel
processo, che cosa mi stava succedendo? Che cosa mi stava succedendo?
Perché non ne ero felice?
“Come hai detto che si chiama?”.
“Non l’ho detto. Stai diventando di uno strano colore, Martin, che è successo?”.
“Qual è il suo nome?”.
“Gloria Kauffman. Perché?”.
Ricaddi pesantemente sulla sedia, mentre i fili del mio cervello tornavano a pendere, senza
costituire forme precise, aggrovigliati e intricati come non mai.
Dunque, non era lei. Era un’altra donna, la traditrice. Come era possibile? Goebbels aveva chiesto
a qualcuno altro di indagare? Io ero soltanto una copertura?
Solitamente, ero io quello che conosceva la situazione ed erano gli altri ad esserne all’oscuro.
Questo identificarmi in un gruppo di banalissimi “altri” m’impietosì e m’irritò allo stesso tempo.
Dovevo andare a quel processo.
Dovevo parlare con Goebbels.
Dovevo parlare con Liesel.
E mio fratello passò la notte sul divano.
Quinto giorno
Ci eravamo dati appuntamento alla stazione, nello stesso punto del nostro primo incontro.
Aspettavo, tenendo fra le mani una copia sgualcita del Signal. Mentre i miei occhi scivolavano sulla
pagina stampata a caratteri altisonanti, mi accorsi che non stavo leggendo. Le parole costituivano
insiemi indistinti, che non formavano parole, né frasi, né pensieri…
Quando alzai lo sguardo, lui era lì.
Stavolta, non avevo lisciato la piega.
Indossava un completo elegante, scarpe lucide di marca, e si stava portando alla testa la mano,
solcata da vene profonde.
“Gloria Kauffman.” esclamai, dimenticando le buone maniere e il saluto militare.
Lui parve sorvolare sul mio atteggiamento: “Martin, ti ringrazio di cuore per i tuoi servigi. Sei stato
efficiente e, come promesso, ti ricompenserò adeguatamente.”
Tirò fuori una spessa risma di banconote, e me le porse.
“No, grazie.”
Lui inarcò un sopracciglio, ma non sembrò stupito. Chinò la testa e non insistette, ripose i soldi
nella tasca della giacca e mi fissò: “No, grazie?” ripeté.
“Io non ho idea di chi sia quella donna. Lei mi aveva chiesto di investigare su Liesel Kober ed è ciò
che ho fatto. Non ho scoperto la talpa.”
“Io non le avevo chiesto di scovare la talpa. Le avevo chiesto di indagare sulla signorina Kober ed
è proprio ciò che ha fatto. La signorina Kober non aveva nulla da nascondere.”
“Mi piacerebbe sapere come è stata scoperta la signorina Kauffman.”
Lui annuì, con aria severa, mentre una sottile vena blu gli passava per la fronte.
“Nel cassetto della sua scrivania, sono stati trovati dei fogli rettangolari di piccola dimensione, sui
quali erano appuntati i segreti che passava ad associazioni clandestine.” Stava cercando di
mantenere la calma, ma qualcosa mi diceva che nutriva per la signorina Kauffman un rancore che
le sarebbe costato la stessa vita.
Goebbels fissò l’orologio della stazione, con aria stanca.
“Verrà al processo?” mi domandò, con un sorriso.
“Penso proprio che verrò.”
“Faremo in modo che non la passi liscia.” commentò, sibillino, il ministro della Propaganda, poco
prima di andarsene e sparire nel fumo della stazione.
Liesel non c’era.
Pagai il conto, insoddisfatto.
Sesto giorno
Quando Liesel Kober uscì, verso sera, dall’Ordenspalais, io la fermai, in mezzo alla strada.
Lei per poco non si mise a urlare.
La tenni ferma per un braccio, mentre le mi tirava addosso la borsa e mi minacciava di cominciare
a gridare. Dopodiché, mi pestò un piede e corse via, in lacrime.
Mi sedetti su una panchina, sconsolato, a fissare i piccioni e a immaginare che cosa stessero
pensando. Siccome non riuscivo ad entrare nella loro mente, che mi pareva a dir poco
impenetrabile, aprii il Signal alla pagina artistica e mi misi a leggere.
Non so dire quanto tempo passò, prima di sentire il rumore di passi di donna e percepire una
presenza accanto a me. Posai il giornale e la guardai in faccia.
Si era calcata bene sul viso il cappello, come se avesse avuto paura che potessi vedere qualcosa,
nei suoi occhi. Io, però, quel qualcosa l’avevo già visto.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi. Un piccione si avvicinò, lei aprì la borsetta e spezzò un
pezzo di pane. Briciola dopo briciola, in terra non ne rimase neanche una.
“Perché mi segue?”. Un modo strano di cominciare una conversazione, ma l’unico possibile, in
quel momento.
“Secondo lei?”.
Lei rimase in silenzio, abbassando il viso.
“So che hanno arrestato una sua collega, Gloria.” ripresi, cercando di testare la sua reazione alle
mie parole. Rimase impassibile. Avrei voluto vedere il suo viso, sotto l’ombra del cappello.
“Perché stiamo parlando di questo?” sospirò lei, dopo un po’.
“Quando le ho chiesto di giocare e lei mi ha dato le carte, sono rimasto stupito. Erano carte
perfettamente normali, nessuna truccata, nessuna con strani segni o scritte. Ho pensato di essermi
sbagliato. Poi, però, ho capito. I soldi.”
Lei rabbrividì. Potevo percepire il suo istinto ad andarsene, eppure rimase lì, ferma come una
statua, come una bambola di porcellana.
“Lei che non voleva giocare a soldi con me…i soldi che vinceva soltanto il suo amico…era questo il
modo in cui gli passava informazioni. E poi, la prova finale: fogli rettangolari di piccole dimensioni
trovati nel cassetto di Gloria Kauffman, con i segreti e le notizie più terribili dal ministero della
Propaganda…”.
Liesel rise. “Si sente meglio, ora che ha giocato al detective?”.
“Liesel.” Non sapevo ancora dove sarei andato a parare, né perché mi preoccupava tanto tutto ciò.
Eppure, sentivo il bisogno di dirglielo, di avvisarla. Di chiedere perché. La strega e la principessa
mi parevano ora fuse nella stessa persona. “Liesel…perché l’ha fatto?”.
Lei mi guardò, gli occhi lucidi e rossi. Pensavo avrebbe pianto, non pianse, parlò.
“Ho avuto paura. Non è stata colpa mia, ma colpa sua! Sono andata nel panico, pensavo che tutto
il mondo conoscesse il mio segreto. Sapevo che stavano investigando sulla fuga di notizie…ho
sistemato i finti soldi nella sua scrivania. E sappia che…” a questo punto cominciò a sussurrare, a
denti stretti, come se ogni parola fosse stata un colpo di pistola rivolto verso di me “Sappia che me
ne pento, certo, perché Gloria era innocente e ora pagherà al posto mio. La colpa, però, la
condividiamo. Ciò di cui non mi pento, signore, è di essere stata di qualche aiuto contro questo
regime. Non ho salvato alcuna vita, perché non sono abbastanza coraggiosa, o forse abbastanza
incosciente, ma se posso far cambiare opinione ad alcune persone, allora mi metto all’opera al
servizio della giustizia. Non della legge, della giustizia. Mi sento una persona molto migliore di lei,
di tutti voi, di tutta questa stupida guerra che…” Si fermò.
“Cos’era, una trappola?” sospirò. “Ho appena ammesso la mia colpevolezza?”.
Un filo di luce passò sul suo volto. Aveva due occhi forti e sinceri, pieni di rabbia contro il mondo,
eppure troppo dolci per provare odio. Cercai di prenderle la mano, lei la ritirò, con uno scatto.
Io sapevo di essere peggiore di lei. Ma non potevo permettere che quella ragazza si abbassasse al
mio stesso livello.
“Sei una persona di gran lunga migliore di me, perché segui i tuoi ideali e cerchi di fare ciò che
ritieni giusto. Però, hai denunciato una persona innocente. Se credi veramente in quello che fai, se
sei veramente la paladina della giustizia che ti dipingi, allora devi essere pronta ad affrontare le
conseguenze delle tue azioni. Io non sono pronto, e quindi mi adeguo al mondo che mi circonda.
Se tu, invece, hai forza e coraggio, e credi in una causa, devi batterti fino all’ultimo per essa. Non
puoi abbandonarla nel momento del pericolo. Quando cominci qualcosa, devi finire. Io non ho
cominciato, per questo sono libero. La soluzione, Liesel, non è addossare colpe a una persona che
non le ha. Difendere il tuo pensiero, che non è una colpa, ed essere fedele a te stessa. Io so di
essere colpevole, forse molto più di te, ma ti giuro che la soluzione non è addossare la colpa a
Gloria.”
“Ero andata nel panico! Ero andata nel panico, non volevo morire!”.
“Puoi rimediare ai tuoi errori. Ti giuro che sono più terribili le punizioni della coscienza che quelle
dei nazisti.”
La ragazza si alzò di scatto, mi prese il Signal dalle mani, lo strappò in due, poi corse via.
La volta seguente, la vidi in tribunale.
Settimo giorno
Era seduta al banco dei testimoni, per l’accusa ovviamente.
L’unica testimone della difesa era la signorina Kauffman e la sua testimonianza non avrebbe fatto
la differenza.
Vedevo l’imputata di spalle. Era alta, aveva i capelli castani, raccolti in una crocchia fatta di
malavoglia, di fretta, senza cura.
Ogni volta che veniva nominata, in aula di sentivano fischi e grida e lei abbassava la testa.
Probabilmente, non aveva nemmeno compreso l’accusa per la quale era stata arrestata.
Il giudice, nel frattempo, alimentava i fischi e le risate di scherno, fulminando l’imputata ad ogni
respiro che faceva.
Un avvocato giovane e alto si alzò, disse le consuete formule esaltatrici del Reich e si avvicinò a
Liesel. Non mi aveva ancora guardato. Sembrava mi stesse evitando, apposta.
“Signorina Kober, lei lavorava nella postazione vicina a quella dell’imputata?”. Fischi. L’avvocato
ridacchiò.
“Sì, è esatto.”
La voce di Liesel era fredda. Avevo paura delle sue risposte, in qualsiasi caso.
“E notava strani comportamenti, per caso? Aveva già visto quei fogli, e si era chiesta a che cosa
servissero?”.
“No, non mi ero mai accorta di nulla.”
Non sapevo cosa pensare di questa risposta. A che gioco stava giocando Liesel?
“L’imputata” e giù a fischiare “Le aveva mai parlato delle sue idee politiche? Ha mai percepito
segnali antipatriottici da parte sua?”.
“Gloria Kauffman è sempre stata una fervente sostenitrice del Partito Nazista, non ha mai dato
alcun segnale contrario.”
In quel momento, il timore che seguisse veramente il mio consiglio mi attanagliò.
“Dunque, secondo lei, l’imputata sarebbe…non colpevole?”. E ancora fischi.
“Sì. Penso che sia innocente.”
“Nonostante tutte le prove?”.
“Nonostante tutte le prove.”
“Dunque, non è stata lei a mettere le false banconote nel cassetto della scrivania?”.
“Non è stata Gloria, no, è stato qualcuno altro.”
“Come può dire una cosa simile?”.
“Perché io so chi è il colpevole. E non è Gloria.”
Un silenzio di tomba calò in aula. Il mondo parve fermarsi…avevo veramente condannato a morte
una donna la cui unica colpa era seguire il suo cuore?
L’avvocato si avvicinò: “E chi sarebbe, il colpevole, signorina Kober?”.
“Il signor Martin Brönte.”
Io so di essere colpevole, forse molto più di te, ma ti giuro che la soluzione non è addossare la
colpa a Gloria.
In quel momento capii che Liesel aveva seguito il mio consiglio.
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