Preludio a una storia mai scritta

Data: 9 Giugno 2022

Tag: Racconti

Di: Elena Mora

Aprì gli occhi.

L’aveva vista passare.

Sì, era lì, c’era stata…o forse aveva soltanto sognato?

Gettò la mano sulla sveglia, come per spegnerla.

Ma la sveglia non stava suonando, così tutto ciò che ottenne fu di andare a sbattere contro il comodino con la mano.

Emise un gemito di dolore e strinse la mano al petto. La notte gli impediva di vederla mentre si arrossava e gonfiava sempre di più.

Si mise seduto, mentre gli occhi si abituavano al nero intorno a lui.

Vide prima una piccola scrivania, poi una poltrona in pelle su cui riposavano stanchi un paio di pantaloni e una maglietta bianca.

E in mezzo al disordine nascosto dal buio, la cercava con lo sguardo.

Era sicuro di averla vista, poco prima, entrare nella stanza. L’aveva guardato negli occhi e l’aveva accarezzato, gli aveva sussurrato all’orecchio…e, proprio quando lui aveva aperto gli occhi, era andata via.

Chiuse le mani a pugno e vi appoggiò il mento, per pensare.

Era così che faceva, fin da quando non aveva ascoltato abbastanza pensieri per crearne di propri.

Si sedeva a rimuginare, fino a quando un omino misterioso non accendeva una luce sulla sua mente e lui riusciva a vedere meglio. Quando la luce era accesa, poi, gli sembrava tutto così chiaro, così vivido e reale. Tanto reale che prima non se n’era nemmeno accorto.

Prendeva i fili pendenti e li legava insieme, finché la luce non si spegneva di nuovo.

Qualcuno l’aveva accesa, la luce, mentre dormiva. Aveva appena fatto in tempo ad aprire gli occhi che si era spenta e l’idea era svanita, come per magia.

C’era stata, però, un’idea.

L’aveva vista passare, la luce si era accesa.

E ora, seduto lì, cercava di ritrovarla.

Pensò di accendere la luce nella stanza, perché non si sa mai che il buio oscuri anche la mente.

Si mise seduto alla poltrona, spostando i vestiti sul letto, accanto al cuscino.

Prese il foglio bianco e la penna e li gettò via, più lontano che poté.

I fogli bianchi fanno uno strano effetto alle idee. Le fanno svanire.

Più un foglio è pieno, invece, più la scrittura è fitta, e più le idee ritornano, si accavallano, spintonano per essere le prime a imprimersi per sempre sulla carta.

Pensò che, forse, avrebbe potuto scrivere qualcosa, tanto per ingannare l’idea. Tanto perché ritornasse.

Diceva Hemingway che, di fronte alla pagina bianca, bisogna scrivere la prima frase vera che viene in mente. 

Aveva passato anni a crogiolarsi nel dubbio di che cosa intendesse. 

Aveva pensato a quel genere di frasi che ti vengono in mente la notte, quando non c’è nessuno accanto a te se non il peso dei tuoi problemi. Quel genere di frasi che ti entrano dentro e non vanno più via, frasi così banali che nessuno le ha mai pronunciate.

Non aveva ancora capito, in realtà.

Gli piaceva pensare, però, che un racconto, che è quanto di più falso esista al mondo, possa iniziare con una frase vera.

Quando suo padre lavorava al giornale, tornava a casa stanco la sera, lo prendeva sulle gambe e gli sussurrava: “Non dire mai la verità, mi raccomando. La verità è noiosa, spesso ferisce e colpisce alle spalle. Le bugie sono molto più interessanti. Le persone che mentono di più sono quelle che arrivano più in alto, nella vita.”
E lui aveva recepito il messaggio del padre. Quando il direttore l’aveva chiamato, qualche giorno dopo il funerale, per continuare la strada tracciata da papà, lui aveva rifiutato categoricamente.

“E perché?”.

“Perché dovrei scrivere soltanto ciò che accade.”

“E non le piace sapere ciò che accade?”

“A volte farei accadere le cose in modo diverso.”

E l’altro aveva messo giù, aveva firmato un editoriale che non aveva scritto e si era inabissato di nuovo in quel sudoku impossibile.

Aveva pensato di fare l’attore, ma l’avevano cacciato da tutte le compagnie teatrali.

“Lei non rispetta il copione.”

“Si chiama improvvisazione.”

“Senta, vada a farsi un giro, eh?”.

Lui aveva fatto un giro, ma quando era tornato a teatro gli avevano messo in mano un dépliant pubblicitario e un paio di dollari, per poi invitarlo gentilmente a non farsi più rivedere. 

Si era seduto su una panchina, allora. 

Aveva chiuso le mani a pugno e vi aveva appoggiato il mento, perché era così che faceva a pensare.

Anni dopo, era tornato a quella stessa panchina, ma aveva notato con sorpresa che non c’era più. Al suo posto, un chiosco di panini e bibite popolato da avventori abituali che guardavano in cagnesco chiunque si avvicinasse.

“Non c’è una panchina, qui?”.

“Non c’è mai stata, che io sappia.”

“Da quanto tempo ha il chiosco in questo punto?”.

“Io? Vent’anni, penso. Venti l’anno prossimo, anzi.”

“Ma dieci anni fa, qui c’era una panchina.”

“Misteri della vita” aveva concluso laconicamente l’altro. E aveva ripreso a servire panini imbottiti.

Se ne era andato insoddisfatto, con una sensazione amara nella gola. Come se la panchina non fosse mai esistita, come se le parole di quell’uomo avessero distrutto tutti i suoi sogni di gloria.

Era su quella panchina, infatti, verità o ricordi sbiaditi che fossero, che aveva capito di essere uno scrittore.

Probabilmente tutti sono scrittori, ma non se ne accorgono. Tranne i giornalisti. I giornalisti non sono scrittori, specie se amano il loro mestiere. Chi ama troppo la verità non può giocare con la fantasia, né apprezzare le bugie.

A volte aveva l’impressione che suo padre fosse uno scrittore, dentro.

Non aveva avuto abbastanza tempo per capirlo.

Su quella panchina onirica era diventato uno scrittore. Era corso in casa di gran carriera e si era posizionato davanti alla macchina da scrivere, a battere i tasti come un forsennato, in piedi, sudato, tremando.

Erano uscite due pagine mediocri, che forse l’uomo del chiosco avrebbe usato per incartare i panini. Era una di quelle cose che solo in America succedevano: usare le parole per avvolgere il cibo. 

Se l’avesse creato lui, il mondo, avrebbe cambiato questo aspetto, fra le altre cose.

La sua avversione per la verità, spesso l’aveva messo nei guai. In particolare, ricordava una giornata di pioggia e il viso arcigno di una professoressa di lettere.

Si trattava forse del sesto esame, non che avesse tenuto il conto, in realtà. Si era trovato davanti l’esaminatrice con una serie di domande fitte e inestricabili. Siccome la risposta l’aveva lasciata a casa, aveva iniziato a parlar d’altro.

“Io però non le ho chiesto questo, sa.”

“Davvero?”. In quel momento pensò che le compagnie teatrali avrebbero sentito la sua mancanza.

“Io le ho chiesto di parlarmi della corrente Lost Generation.”

Si finse stupefatto. Poi sorrise, come stesse compatendo l’esaminatrice. 

“Nossignora, lei mi ha chiesto ciò di cui ho parlato.”

“Io ricordo chiaramente…”

Il suo volto aveva fatto il resto. Aveva preso un 26 senza sapere nulla e parlando d’altro, convincendo l’esaminatrice di avere problemi di memoria o di doversi addirittura far curare in una clinica psichiatrica.

Sussultò. Una goccia d’acqua era piovuta da chissà dove. Si alzò in piedi sulla poltrona e fissò il soffitto. Non sembrava che vi fossero crepe. Si rannicchiò di nuovo sulla poltrona, spostandola leggermente per schivare ulteriori docce fredde.

Fredde come l’acqua che aveva preso dal frigorifero e che gli aveva preso il corpo con un brivido.

Fissò stancamente il foglio candido. Aveva fatto una linea e un punto, tanto per ingannare l’idea, ma questa era troppo astuta e rimaneva nascosta chissà dove. 

Scorse a ritroso i pensieri di quella notte. Forse avrebbe ritrovato la scintilla, la miccia.

Srotolò davanti a sé tutte le parole che aveva immaginato o che aveva pronunciato nel silenzio della notte.

Scoprì con un misto di amarezza e di nostalgia che la metà dei suoi pensieri era occupata da Sophie.

Ricordava la prima volta che l’aveva vista. In vacanza in Francia, il Louvre che stava per chiudere e nessuno dei custodi che aveva il coraggio di buttare fuori quel ragazzo ingenuo e interessato, che fissava da ore i quadri per entrare nel loro mondo.

C’era un’altra visitatrice che si era attardata fra i pittori fiamminghi e italiani. 

Indossava un cappellino beige, i capelli neri che le ricadevano sul viso incorniciandolo in un’espressione di tenerezza.

Gli stivali alti che la slanciavano fino al cielo.

Aveva passato minuti ad alternare lo sguardo fra lei e i dipinti, credendo di non essere visto.

Lei si era avvicinata a lui e aveva preso la guida in mano. Aveva letto ad alta voce autore e titolo dell’opera. Si erano guardati, lui che pregava che lei aprisse di nuovo la bocca, che parlasse di nuovo con quella sua voce dolce, a tratti graffiata.

Gli aveva sorriso, si era voltata ed era uscita dal museo, gettando il biglietto nel cestino dietro di sé.

“Mi domando perché tutti gli americani che vengono qui s’innamorino di qualche francese.”

Aveva ignorato il commento della custode e aveva fatto cadere il biglietto nel cestino, accanto a quello di lei.

Gli parve qualcosa di molto romantico.

Gli occhi gli si stavano chiudendo. Aveva bisogno di ritrovare quell’idea, perché sentiva che fosse quella giusta. 

Sentiva che era una grande idea, una di quelle idee che cambiano la vita, senza che tu nemmeno te ne accorga. 

Prese il foglio e scrisse una frase, tanto per ingannare l’idea, perché una riga e un punto erano troppo poco anche per un’entità incorporea.

Il treno è ripartito.

Erano partiti tanti treni, e non sempre lui era a bordo.

Alcuni treni si erano schiantati, altri erano arrivati in luoghi meravigliosi.

Ciò non faceva differenza, però, se rimaneva in stazione.

Ricordava le parole che Michael gli aveva detto, prima di prendere quel treno per l’Ovest.

“Me ne vado perché qui non ci sono più io. Non so se dove andrò mi ritroverò, ma voglio tentare.”
“Stammi bene, vecchio mio.”

“Ti manderò una cartolina dal mio ranch.”

Non gli aveva più mandato nulla, in realtà. Solo una volta si era fatto vivo, l’anno prima.

Aveva bussato alla porta ed era entrato in casa senza tante cerimonie.

“Sono venuto per complimentarmi con te. Ho sentito che hai pubblicato un libro. Sei bravo.”
“Ti è piaciuto?”.

“Sì…no, cioè, non lo so, non l’ho letto. Ma caspita, amico, sei bravo!”.

“Non ti darò un soldo.”

“Ehi, io ti voglio bene. Pensi che sia veramente qui per soldi?”.

“Non ti sei mai fatto vivo.”

“Ti sei offeso?  Veramente? Pensavo fossi…”

“Sì, anche io pensavo che tu fossi.”

“Non voglio soldi, ti ho detto.”

“Non li avrai. Buonanotte Michael.”

Gli aveva sbattuto la porta in faccia ed era andato a dormire.

Durante la notte, gli era venuto in mente che forse veramente non voleva soldi.

La mattina dopo l’aveva visto al bar, seduto a sorseggiare un caffè. Aveva il suo libro aperto sul tavolo e lo stava leggendo.

Aveva camminato speditamente verso il parco, con il viso rosso di vergogna. 

L’idea, però, non gli veniva in mente.

Il sonno era troppo forte e si addormentò sulla scrivania, mentre le gocce d’acqua provenienti da chissà dove continuavano a picchiettargli sulla schiena.

Si fermò.

L’aria mattutina di Central Park gli solleticava il viso.

Sbatté le palpebre per essere sicuro di ciò che aveva visto.

Il chiosco dei panini non c’era più.

Al suo posto, c’era una panchina.

Dopo dieci anni, c’era una panchina.

Titubante, si sedette.

Chiuse gli occhi, si lasciò cullare.

Prese il foglio con cautela, sfilò il tappo della penna, scrisse una frase vera.

Forse la realtà non è così male.

09/06/2022|Categorie: Eureka|Tag: |