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Lo Schwa

Data pubblicazione: 5 Febbraio 2022

Di: Achille Lazzari

Lo schwa, o all’italiana scevà, è il novantesimo simbolo (e non una lettera) dell’alfabeto fonetico internazionale, viene definita vocale media perché si pronuncia senza articolare la bocca; per intenderci è quella piccola “e” minuscola ruotata di centottanta gradi.

Il suono rappresentato dallo scevà è presente solo in alcune lingue o dialetti, ma non nella lingua italiana standard.
Tutto ciò premesso, la necessità di rendere più inclusiva la nostra lingua l’ha resa un tema caldo e spinoso.
Di recente, si sta pensando di rivedere la regola grammaticale italiana che prevede di concordare i plurali al maschile, perché giudicata sessista. Taluni hanno proposto di mettere alla fine della parola una lettera accentata o un asterisco e così via; ma in questo mare di proposte una soluzione per mettere d’accordo tutti sembra lo scevà.

I sostenitori dello scevà sono molti, specie sul web.
Con loro si è schierata Vera Gheno, traduttrice e linguista italo-ungherese, la quale ritiene che i pro della sua introduzione supererebbero i contro.
I puristi dell’italiano però non ci stanno; Cecilia Robustelli, docente di Lettere presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e collaboratrice dell’Accademia della Crusca, spiega che la sua contrarietà si fonda su ragioni tecniche e filologiche e non ideologiche. La docente afferma che l’introduzione di un nuovo simbolo estraneo alla lingua in un testo creerebbe confusione e minerebbe la coesione testuale indispensabile per la comprensione di un testo.
Per citare le sue parole: ’’Se si eliminano le desinenze scompare ogni collegamento morfologico e il testo risulta per così dire un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione”. Ella afferma anche che queste proposte, benché animate da buone intenzioni, sono irrealizzabili nel contesto linguistico italiano.
Paradossalmente, secondo la Robustelli, l’omologazione di ogni desinenza potrebbe essere un duro colpo all’emancipazione femminile, difatti dice:” non è una posizione da femminista: è una posizione da linguista, perché se non si attribuisce alle donne il titolo femminile, si trasgredisce ai principi di genere che invece permettono di riconoscere, disambiguare e valorizzare le donne, dando un’immagine della realtà conforme a quella che è ora, non quella di cinquant’anni fa.”
Inoltre per la Robustelli, se proprio si vuole usare lo scevà bisogna farlo solo in formule brevissime, ma non dalle istituzioni che devono avere come diktat l’utilizzo di un linguaggio il più chiaro possibile, affinché venga compreso dai più: Per dirla con le sue parole : “ le comunicazioni istituzionali non si scrivono in dialetto”
Il problema non si è posto solo in Italia; a titolo esemplificativo, in Francia,( il francese essendo anch’essa una lingua romanza ha più o meno le stesse strutture grammaticali italiane) un dizionario on-line lo ha adottato dal 2022 facendo molto discutere.

Naturalmente sono tutti concordi nel ritenere che la lingua non può cambiare da un momento all’altro, specie nel caso di una revisione che impatterebbe in modo così radicale sulla morfologia e la grammatica.
Il punto è, per i sostenitori, che la società si evolve e la lingua di pari passo con essa.
La lingua ha già subito dei cambiamenti in concomitanza di eventi storici: ad esempio con l’affermarsi delle nuove tecnologie e dei social networks ( un inglesismo per l’appunto) l’Accademia della Crusca ha accettato di inserire nei vocabolari lemmi come “chattare” o ”social” dal momento che sono indispensabili per l’assenza dei corrispettivi italiani.
In sostanza la questione è capire se lo scevà è indispensabile o no.
Alcuni osservatori si chiedono se lo scevà renderebbe l’italiano cacofonico ( ricordiamo che l’italiano viene considerata dai glottologi tra le lingue più eufoniche del mondo).
In ogni caso ci vorrà tempo bisognerà ristampare libri, abituare tutta la popolazione che ha ricevuto l’istruzione elementare prima della riforma (per ora tutti).
Achille Lazzari

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