La violenza di genere nella Commedia
Data pubblicazione: 25 Novembre 2021
Scritto da: Sara Pallonetto
[Immagine: “Paolo e Francesca” Gaetano Previati 1887, olio su tela, 98 × 227 cm, presso l’Accademia Carrara di Bergamo, Pinacoteca.]
Leggendo la Divina Commedia spesso accade di imbattersi in narrazioni basate su dinamiche lontane dalla nostra quotidianità, tuttavia, se si è in grado di mettersi in ascolto della letteratura, si osserverà che i richiami al presente sono molteplici.
In questo 25 novembre celebriamo la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, tema ancora purtroppo di estrema attualità. Da inizio anno in Italia hanno perso la vita più di cento donne sotto la follia atroce dei propri coniugi, ex compagni, partner o familiari stretti. Dal Duecento ad oggi molto è cambiato, ma tra i comportamenti rimasti immutati sembra spiccare proprio quell’impeto disumano, che porta diversi uomini, feriti nel loro orgoglio, a manifestare una follia possessiva e prevaricatrice che tende a riversarsi sulle donne attaccando e uccidendo brutalmente. Nella Commedia Dante parla più volte di donne vittime di violenza, nobildonne segnate nelle loro vite dall’esperienza dolorosa del tradimento spesso da parte di familiari molto stretti. Dante dimostra dal principio dell’opera di avere una particolare sensibilità verso il mondo femminile e in ognuna delle tre cantiche inserisce la storia di una donna segnata da una violenza domestica. Tre donne diverse, Francesca una peccatrice, Pia una pentita e Piccarda una beata, simboli nelle loro vicende di tre diversi approcci femminili alla violenza di genere; alcune donne non perdonano la violenza, altre la perdonano rimanendo comunque segnate nel profondo, altre ancora arrivano a giustificarla pericolosamente.
Di seguito le loro testimonianze sincere e risonanti.
Sono ancora evidenti sul mio corpo i segni della violenza subita, un taglio netto e profondo all’altezza del cuore. Nel ricordo sento affiorare lancinanti il dolore, la vergogna e il rancore.
“Mio padre, il signore di Ravenna, felicemente mi diede in sposa al podestà di Rimini, Gianciotto Malatesta, e Concordia nacque dalla nostra unione. Il mio matrimonio fu voluto da uomini desiderosi di pace, ma dall’animo accecato da un’insana brama di potere. In quella vita segnata da un’unione infelice con un uomo che non scelsi, si insinuò nel mio cuore un sentimento talmente impetuoso e profondo da dominare ogni mio pensiero. Paolo era il suo nome, il capitano del popolo a Firenze e il fratello di mio marito, ma per me semplicemente l’amore. Quell’amore che mai avevo provato, ma di cui avevo solo letto nei romanzi di corte, dal primo momento mi legò a lui indissolubilmente. Quel giorno sfortunato, chiusi nelle stanze, credevamo di essere al riparo dagli occhi indiscreti della corte, ma ad uno stesso destino ci condusse quel nostro amarci proibito. Sorpresi da mio marito, un pugnale suggellò per sempre la nostra unione nella morte.
Mai potrò perdonare la violenza che mi fu arrecata da mio marito, né cercherò di giustificarla. In quegli attimi pieni di terrore il mio pensiero andò immediatamente a mia figlia, Concordia, privata della madre e vittima vivente di quel tradimento. Temetti per la sua vita, pregai il Signore di risparmiarla, poi, dopo aver incrociato per l’ultima volta lo sguardo di Paolo, spirai.”
[Immagine: “Pia de ‘Tolomei” Dante Gabriel Rossetti 1868, olio su tela 105,4 × 120,6 cm, presso Spencer Museum of Art, Kansas.]
Pronunciai una promessa solenne il giorno in cui andai sposa al podestà di Volterra,
Nello dei Pannocchieschi. A Siena la mia famiglia, i Tolomei, era tra le più rispettate e la mia vicenda fu molto discussa in Toscana. Dopo il matrimonio, venni relegata nel castello della Pietra, in Maremma. Accettai quella vita, desiderosa di tenere fede alla promessa fatta a mio marito davanti al Signore. Spesso proprio al Signore rivolgevo le mie preghiere e a Lui affidavo le mie speranze, accrescendomi nello spirito. Raramente incontravo mio marito; si diceva infatti che avesse molti impegni, ma alcune voci riportavano che si vedeva spesso anche con una donna, Margherita Aldobrandeschi, per giunta promessa sposa. Accadde però che quell’uomo, lo stesso che mi porse l’anello nuziale dopo aver chiesto la mia mano, non molto tempo dopo le nozze decise di disfarsi di me. Quanto al movente, alcuni parlano di gelosia, altri di interesse; per molti appariva ormai chiaro che avesse trovato un miglior partito, dimenticando così la promessa che ci legava. Mandò un uomo a compiere l’atto e costui, trovatosi dinanzi alla mia fragile ingenuità, portò via ogni mia tenera speranza. Negli ultimi istanti di vita mi affidai al Signore, che mi permise, in sintonia con il suo perdono, di perdonare quella violenza. E ora la mia anima pia chiede solo di essere ricordata.
[Immagine: “Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso” Raffaello Sorbi 1866, olio su tela 176 x 234cm, presso Palazzo Pitti, Firenze]
Seguendo la regola di S. Chiara, mi unii all’ordine delle Clarisse in giovane età. Mi spinse a prendere i voti l’insinuarsi in me di un sentimento caritatevole e sincero verso Dio, che portò ad abbellirmi ulteriormente nello spirito. Giurai al tempo, prendendo il velo monacale, che sarei stata eternamente sposa del Signore, ma per interesse altrui quella promessa venne presto infranta. Un giorno infatti alcuni uomini vennero al convento, con forza mi costrinsero ad abbandonare i voti e a prendere in sposo un uomo, Rossellino della Tosa, conoscente stretto di mio fratello Corso Donati e politico ambizioso. Uomini tutti abituati al male, vittime di una società segnata da violenze e prevaricazioni. Sacrificando i desideri e le speranze nutrite nel caro convento, convolai a nozze. Fu quella l’esperienza più dolorosa; tradendo la promessa fatta, mi legai ad un uomo davanti al Signore, mio unico e vero sposo. Tuttavia anche in quella circostanza non mi abbandonò quel sentimento che da principio mi spinse ad indossare l’abito monacale. Invero la prima notte di nozze il Signore scelse di prendermi a sé infiammandomi di un ardore incontrollabile e, febbricitante, abbandonai quella vita terrena per ricongiungermi a Lui e al suo ordine divino.
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