Io e la mia Signorina: Una storia d’amore
Data: 9 Giugno 2022
Tag: Racconti
Di: Josè Marceca
La prima volta che vidi la Signorina fu al ritorno dal lavoro, una fredda sera di Gennaio di vent’anni fa. Era distesa su un fianco lungo un viale della grande piazza che c’è davanti a casa mia, magra da far spavento, immobile.
La mia profonda empatia per gli animali in genere e per i cani in particolare, mi spinse a restare per qualche minuto da una certa distanza a guardarla. Non sapevo ancora che fosse una femmina, allora.
Naturalmente non appena arrivato dentro casa, la prima cosa che feci fu affacciarmi alla finestra per cercare di percepire qualsiasi minimo movimento. Niente, non sembrava neppure respirare.
Poco dopo, approfittando della tranquillità scesa nella piazza a quell’ora della sera, riempiì una scodella di acqua, un’altra di cibo, e mi precipitai giù per le scale per offrire quei piccoli doni all’animale ferito, sperando di poterlo aiutare, se non fosse stato già troppo tardi.
Non riuscì ad avvicinarmi oltre una decina di metri.
Grazie al suo innato istinto aveva percepito la mia presenza e cercava impaurita di sollevarsi e fuggire da quella potenziale minaccia. Ma non ce la faceva, era proprio malridotta, ma viva!
Lasciai il cibo a distanza di sicurezza e mi allontanai, sperando che trovasse ristoro nella mia offerta. Niente, non aveva la forza necessaria per far nulla, capii che stava per morire. Il giorno seguente, uscendo per andare al lavoro, non potei fare a meno di avvicinarmi per vedere se durante la notte avesse almeno bevuto. L’acqua e il cibo erano ancora lì, intonsi, ed anche lei era nella stessa posizione, come se non si fosse spostata neanche di un millimetro. Nelle ore seguenti non potei fare a meno di pensare a lei e una volta scesa la sera e aver terminato anche per quel giorno le mie attività lavorative, mi precipitai verso casa. Il tempo di posteggiare la mia auto e mi avvicinai quel tanto che bastava per non allarmarla.
Era sempre nella stessa posizione.
Mi stupì che nessuno avesse chiamato il Servizio Comunale per farla portar via.
Quell’essere disgustoso agli occhi di molti certamente a quel punto doveva aver richiamato l’attenzione. Alla stessa ora della sera precedente tornai giù con acqua e cibo, e prudentemente li collocai nella stessa posizione della sera prima. Stavolta alzò di un pelo la testa, mi guardò, ma non cercò di fuggire: avevo rispettato quello che per lei doveva essere il limite di sicurezza. Ma anche quella volta non aveva la forza sufficiente per sollevarsi.
La osservai meglio. Era di sicuro un meticcio. La taglia e Il manto, riccio, che un tempo doveva esser stato color miele, ricordavano vagamente il Lagotto romagnolo, ma quel povero animale era in uno stato tanto pietoso che doveva esser fuggito da terribili sofferenze e maltrattamenti per ridursi così. Le orecchie erano state malamente tagliate, il pelo sporchissimo aveva delle chiazze che mostravano la pelle, i ricci erano talmente intrecciati da ricordare un rastafari che non curava i dreadlock da mesi, forse anni.
Non potei fare altro che rattristarmi ancor di più per lei e sperare che le mie attenzioni sortissero qualche effetto.
Un altro giorno passò, e al mio rientro notai che si era leggermente spostata, mettendosi a ridosso di un albero che la proteggeva parzialmente.
Per la terza volta portai del cibo, e l’acqua. Notai che un altro ragazzo, certamente impietosito quanto me, aveva anche lui portato delle ciotole, e mi rallegrai vedendo quel moto di compassione. La mia sorpresa fu immensa quando la vidi sollevarsi con grandissima fatica e a passo stentato coprire la distanza che la separava dal cibo.
Annusò a lungo, ma certamente le sue condizioni non le permettevano di nutrirsi, così, bevve.
Che gioia mi provocò vedere quella sua reazione, quel suo tentativo di non abbandonarsi alla morte, vederla fare quello sforzo immane e accettare le attenzioni che forse per la prima volta nella vita qualcuno le mostrava.
La sera successiva mangiò una piccola porzione del cibo e si abbeverò. Si era ormai abituata alla mia presenza, e non tentava più di fuggire al mio arrivo, consentendomi di avvicinarmi ulteriormente.
Fu allora che iniziai a parlarle.
Non ho mai amato dare un nome ai cani randagi che ho avuto il privilegio di incontrare nel corso della vita, quelli con i quali si era instaurato un legame profondo, per rispetto alla loro condizione di nobili guerrieri della strada. Nomignoli, vezzeggiativi forse, aggettivi che li identificavano per me nella loro unicità. Quel cane morente, apparso all’improvviso sotto casa, che mostrava la forza di reagire alle terribili vicende che la avevano fatta ammalare e arrivare tanto vicino alla morte, da quella sera per me fu la “Signorina”, perché mi trasmetteva con lo sguardo, con i suoi movimenti, grande bontà e una innata eleganza.
Trascorso qualche giorno non si allarmava più al mio arrivo, mi osservava poggiare nel solito angolino la sua razione di cibo e acqua e aspettava che mi allontanassi di qualche passo per nutrirsi e bere.
Aveva ripreso a mangiare con appetito, come tutti i cani in buona salute fanno, e questo mi rendeva felice. Immaginai che avesse superato la fase critica della terribile malattia che avvelenava il suo corpo.
Una fredda mattina di pioggia scesi da casa per andare al lavoro e lei era lì, ferma davanti alla mia auto. Ritta sulle quattro zampe, mi guardava.
Rare volte ho raccontato questo incredibile episodio, senza mai riuscire a trattenere la commozione- La mia sorpresa fu infinita, nel vederla lì, immobile di fronte a me.
Guardandola con un sorriso da un orecchio all’altro la apostrofai, “Signorina!” Senza riuscire a capire bene che intenzioni avesse. Mi aggredirà? Pensai.
Che stupido che fui, riflettei in seguito, ad avere un pensiero del genere.
Hai salvato quella bestia, credi forse che non abbia capito l’amore che hai mostrato per lei? Credi forse che non ti abbia già identificato come un essere “amico”, diverso dalle vere bestie colpevoli del suo dolore? Credi forse che non ti abbia riconosciuto per quello che hai dimostrato di essere? A lei come magari non riesci a fare con la maggior parte delle persone.
Ci guardammo a lungo, entrambi sotto la pioggia, io troppo felice per ripararmi in macchina e ancora incerto sulle intenzioni della mia “Signorina”. Fu allora che accadde.
Quella splendida creatura, quella manifestazione vivente della magnificenza di cui sono capaci gli animali certo più degli esseri umani, si produsse, davanti ai miei occhi, in un fantastico balletto.
Se avesse avuto la coda, l’avrebbe agitata pazzamente.
Se avesse potuto parlare, mi avrebbe proferito parole d’amore.
Ma danzò per me. Davanti al mio sguardo attonito saltò e saltò ancora, facendomi perfino preoccupare per la sua salute di certo ancora cagionevole.
Fu quella la prima volta che si lasciò accarezzare.
Fu in quel momento che capii che tra noi si era instaurato un rapporto profondo, intimo, sincero. Un rapporto unico.
Da quella mattina fu lei a darmi il buongiorno prima che andassi al lavoro, riservandomi lo stesso sguardo che una donna innamorata rivolge al suo uomo prima che esca di casa. Ero il suo padrone quanto può esserlo qualcuno per un cane randagio, ero il centro della sua vita almeno quanto lei era l’animale che mi faceva star bene per averlo salvato.
Durante i giorni seguenti il nostro legame si cementò. Vedendo evolversi la nostra incredibile storia, anche altre persone sensibili del palazzo dove vivevo iniziarono ad interessarsi a lei, collaborando per il cibo, che a quel punto sfamava anche altri randagi lesti e attenti, e uno stuolo di gatti che non mancano mai di affollare strade e quartieri. Per tutti noi era ormai la “Signorina”.
Un sabato mattina, libero dal lavoro, scesi in strada, la chiamai e la invitai a salire in auto. Con quanta solerzia si precipitò, neanche fosse stata addestrata a farlo! La portai in un centro di toelettatura per cani e le feci fare un bel bagno. Aspettò paziente senza paura che fosse il suo turno, guardandomi con occhi adoranti, e dopo una mezz’ora fu davvero una elegante signorina di razza canina che riportai nella piazza che aveva ormai eletto a sua residenza: pulita, profumata e opportunamente protetta dai parassiti.
Forte di questa sua nuova condizione di cane-amato-e-accudito, la Signorina conquistò presto il cuore di un altro randagio di passaggio, e in men che non si dica, fu gravida. Era una cagna felice, e non mancava occasione per dimostrarlo a me e a chiunque le rivolgeva anche solo una parola buona. Ma dove avrebbe fatto i suoi cuccioli? Li per strada era impensabile.
Allora mi venne un’idea. Contando sulla generosità degli altri inquilini che si erano affezionati a lei, (in particolare due signore amorevoli e sensibili del mio palazzo) raccogliemmo i soldi per comprare quanto necessario per costruirle una cuccia. Preparai dunque un disegno di come la volevo e in un negozio fai da te comprai legno, chiodi e quant’altro serviva allo scopo. Tornato a casa, nell’arco di qualche ora la casetta per la Signorina fu pronta.
Con quanto orgoglio la posizionai sotto un muro abbastanza riparato della piazza. E con quale rapidità i gatti del quartiere se ne impossessarono!
La mia Signorina invece aveva altre idee per la testa.
Era felice, lei, e più la sua pancia gonfiava, più lei era felice. Ad un certo punto, quando ormai era l’ora di mettere al mondo la sua prole, sparì. Sapevo che di certo aveva dovuto individuare un luogo opportuno per tale travaglio, ma non potevo fare a meno di esser preoccupato per lei. Passavano i giorni. Dopo circa tre settimane, quando ormai avevo perso le speranze di rivederla, dopo aver posteggiato mi apprestavo triste a salire le scale quando, con la coda dell’occhio vidi avvicinarsi a passo leggero un cane. Mi voltai, ed era lei! Quanta festa mi fece: salti, guaiti, tutto l’apparato scenico per dimostrarmi quanto anch’io ero mancato a lei. Ma non era tutto lì. Continuava a guardarmi e ad avviarsi lungo una strada, si fermava si riavvicinava a me e ripartiva. Capii. Voleva che la seguissi. E questo è il secondo momento di questa storia che provoca in me una commozione enorme. Il motivo per cui trattengo dentro me la bellezza di questa lezione di vita. La ragione per cui vi faccio solo un breve accenno, tipo: “beh, anch’io ho avuto delle belle storie con i cani randagi”. Non posso andare in fondo al racconto senza trattenere le lacrime. La Signorina, dunque, si avvia lungo la strada, voltandosi di tanto in tanto per accertarsi che non la stessi perdendo. Ad un certo punto si infila in un condominio, attraversiamo il posteggio, e vedo davanti a me aprirsi un sentiero. Continuo a seguirla e mi ritrovo nel bel mezzo di una sorta di giardino abbandonato, con alberi pieni di foglie e l’erba incolta. Procedo a fatica e la vedo ferma nel mezzo di una radura che mi osservava scodinzolando. “Signorina, perché mi hai portato qui?” Le chiesi. Ma in cuor mio sapevo già la risposta. Dopo pochi minuti, dai cespugli, uscirono quattro bellissimi cuccioli che si affrettarono a cercare protezione tra le zampe della madre. La Signorina era venuta a chiamarmi per mostrarmi orgogliosa i suoi figli. Era venuta apposta a chiamare me, per mostrarmi di quanto amore e riconoscenza sono capaci gli animali, quanto pura è la loro anima.
Rimasi lì per un po’ a godere di quella magnifica compagnia, poi tornai sui miei passi e rincasai. Solo in due occasioni la Signorina portò con sé i suoi cuccioli fino alla piazza, e quando furono abbastanza grandi seppi che qualcuno li aveva presi per adottarli.
Lei riprese la vita di sempre in piazza, amata, nutrita e accudita. Poi un giorno, improvvisamente, sparì. A nulla servirono le mie ricerche nella zona. Nessuno, dei servizi preposti, seppe dirmi nulla. Nessuno era stato incaricato di prelevarla. Della Signorina non vi era più traccia. Così come in quella sera di gennaio di tanti mesi prima era apparsa, in maniera altrettanto repentina sparì.
A me non rimase che augurarmi che il bastardo dalla quale era fuggita non l’avesse individuata e ripresa con sé, perché se lo avessi scoperto di sicuro mi sarei fatto arrestare.
Ma qualcos’altro in realtà rimase impresso a fuoco nella mia mente e nel mio cuore: una lezione sulla salvifica importanza dell’amore. L’amore che avevo ricevuto dalla mia Signorina e che mai dimenticherò.
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