Il gatto nero
Data: 7 Novembre 2022
Tag: Racconti
Di: Elena Mora
Il sagrato della chiesa riluceva di un pallore spettrale.
Si percepivano ancora i rintocchi sordi della campana di mezzanotte, le allodole
che sfrecciavano sul piccolo campanile, l’acqua sporca lasciata dalla neve ormai
sciolta lungo il pergolato. Un brivido freddo scosse il corpo del monaco. Indossava
ora gli abiti borghesi, il saio riposava stanco lungo il suo braccio immobile.
Non sapeva perché avesse deciso di portarlo con sé. Forse non era abbastanza
coraggioso per abbandonarlo.
Fissò la carrozza che s’arrampicava su per la collina. Pregava che la strada fosse
infinita, che per qualche strano motivo il monastero risultasse inaccessibile e lo
lasciassero laggiù, in pace, a ricopiare volumi in una lingua che mal comprendeva.
Le sagome scure dei cavalli si avvicinavano. Poteva ora udire il tocco duro degli
zoccoli contro il terreno, altalenante ed oscillante, perpetuo come perpetua era la
gloria del suo ordine.
Notò un monaco che lo fissava dalla finestra della sua cella. Aveva gli occhi torvi e
stanchi, intorpiditi dalla nebbia invernale, ma ancora infuocati contro di lui.
L’uomo sospirò, rimirò con disgusto l’uniforme che portava e vide la carrozza
fermarsi davanti a lui. Il cocchiere scese con un balzo e si sfregò le mani.
Gli parve di riconoscerlo, ma di non ricordare il suo nome. Il cocchiere ruppe il
silenzio come solo un laico può fare ed esclamò, compiaciuto: “Una tremenda
disgrazia, davvero. La morte di vostro fratello. Ma del resto si sa, a volte la fortuna
dell’uomo agisce a spese degli altri.” Detto ciò, lo invitò a salire con un sospiro
freddo.
Il monaco obbedì con un cenno del capo, ripromettendosi che, una volta arrivato a
casa, sarebbe stato lui a dare gli ordini.
Gli era giunta la notizia che era in refettorio. Vistosamente contravvenendo alla
regola del silenzio, François da Lille, triste città incastonata al nord del mondo, gli
aveva recato le sue condoglianze per la morte del fratello. Si diceva che fosse
morto in battaglia, ucciso dagli infedeli, o forse dal suo carattere turbolento.
Sapeva che le vecchie streghe del paese si sarebbero meravigliate enormemente
quando fossero venute a sapere che Michel era sopravvissuto per tutti quegli anni.
Era sempre stato uno di quegli uomini dal destino segnato, così attaccabrighe che
avrebbero certo trovato la morte in duello, così lussuriosi che l’avrebbero trovata
per una malattia.
E lui, riparato al buio dello scriptorium, avvolto nella nebulosa confusione di parole
arcane, era stato richiamato alla vita e alla luce. Si lasciava alle spalle il monastero
– lui, fratello minore senza esperienza e senza futuro – per volare fra gli ampi
possedimenti del padre che, per quanto ne sapeva, non aveva fatto nulla per
meritarli.
L’abate si era dimostrato comprensivo, ma qualcosa nei suoi occhi tradiva una luce
di disprezzo. La notizia si era sparsa per il monastero, prima lenta e poi sempre più
rapida, condita di fantasie da quel mostro alato della Fama di cui doveva aver letto
da qualche parte.
La carrozza procedeva fra scossoni e andirivieni. Pareva davvero che il cocchiere
stesse andando alla cieca ma, siccome il monaco non aveva certo molta più
conoscenza di quelle terre, decise di fidarsi e mutarsi guardando fuori dal finestrino.
“Fa freddo, vero? Non oso immaginare il monastero. Eravate relegato su per una
montagna, ma che dico, proprio in cima alla montagna del Purgatorio.”
“Tanto meglio.” Ribatté secco l’altro, che di parlare proprio non aveva intenzione.
“Da lì si vede l’ingresso per il Paradiso.”
Proseguirono per un paio d’ore prima di fermarsi ad abbeverare i cavalli. Erano due
animali di grossa stazza, forti e bianchi come si confà ad un purosangue. Si
gettarono sull’acqua come se non bevessero da anni, senza nemmeno aspettare
che la carrozza si fermasse. Il monaco osservò il cocchiere mentre s’inabissava in
un boschetto e ne ritornava con una risma di fuscelli e pietruzze. Con sguardo
allegro, annunciò che avrebbe acceso un fuoco.
Passarono la notte all’ombra fredda delle piante e il monaco ogni tanto si svegliava
per controllare se il fuoco non avesse già incendiato il bosco.
Ripartirono all’alba, il cielo era tinto di un rosa debole e fiacco, come se il sole non
avesse avuto voglia di sorgere. Dopotutto, doveva essersi arreso ormai. Al mondo
degli uomini non bastava un po’ di sole per risplendere.
Il viaggio proseguì per un paio di giorni e per un paio di tappe in paesi dimenticati
dalla Storia. Ogni tanto il cocchiere faceva una battuta di troppo e l’uomo lo
fulminava, ricordandogli che, nonostante non lo fosse più, fino a pochi giorni prima
era stato un monaco.
“Io non vi capisco, sapete? Come potete preferire una vita da recluso a una da
signore feudale? E poi, sapete, dovete consolare la povera vedova di vostro
fratello…”
Si chiamava Isabel, aveva diciotto anni ed aveva rifiutato di vestirsi a lutto. Veniva
da un paese conosciuto agli spagnoli ma ignoto al resto del mondo e ostentava la
propria religiosità in modo così forte che probabilmente non vi credeva affatto.
L’aveva vista solo una volta, per il matrimonio. Era una bambolina di porcellana
gettata in pasto ai leoni del mondo, sposa di un marito degenere e truffaldino, che
se non aveva fatto a pezzi tutte le proprietà del padre era perché non aveva fatto in
tempo.
Si figurò l’immagine dolce e infantile della piccola Isabel che passeggiava per le
stanze del castello. Improvvisamente, le chiacchiere del cocchiere divennero meno
fastidiose, il cielo più azzurro e anche l’inverno meno freddo.
Arrivarono una mattina di febbraio e il paese non si era ancora svegliato. Un
piccolo manipolo di cavalieri, cortigiani e familiari si era radunato controvoglia agli
ingressi della cittadina. Il monaco li fissò, tutti così stanchi e affaticati, tutti che
parevano aver pianto la morte del fratello ma che in realtà non si dispiacevano
affatto.
Cercò con lo sguardo la giovane Isabel, invano. Forse era in camera sua, forse
dormiva ancora. Di certo una vedova non poteva arrischiarsi a scendere in piazza.
Il monaco scese dalla carrozza e fu accolto da alcuni radi applausi. I cavalieri
fecero un piccolo inchino davanti a lui, mentre la vecchia madre avanzava a
tentoni, cercando con le mani un figlio che non poteva più vedere.
“Sei proprio tu, Jean? Sei tornato.”
“Sì, madre. Come sta Isabel?”.
“Terribilmente disperata. Oh, come sono contenta che tu sia qui. Ora andrà tutto
bene, già…andrà tutto bene…” Si cullava in quelle parole come se fossero state
una nenia. Il monaco l’accarezzò lievemente, poi ordinò a qualcuno di portarlo al
castello, nelle sue stanze.
Lo condussero su per una scala nervosa che pareva lì lì per cadere a pezzi. La
porta cigolò un poco e Jean si ritrovò in una stanza da letto più grande dello
scriptorium dove passava le giornate. Il letto era intarsiato ed un’enorme scrivania
ricca di conti in sospeso stava alla parete di fronte. Un soffitto alto e squadrato era
illuminato da una scia di candele simile alla Via Lattea.
“Se volete riposarvi un momento…” esclamò il ragazzo che l’aveva guidato. Si
fissarono per poco, poi il ragazzo abbassò la testa e fece per andarsene.
“Dov’è morto mio fratello Michel?”.
La schiena del ragazzo scattò un poco. Sembrava quasi in trance, sognante, come
se non avesse capito bene ciò che gli era stato chiesto. Come se non si fosse
ancora capacitato della notizia, o fosse stato un colpo troppo grande.
“Suo fratello…morto…” mormorò.
“Non fa nulla, puoi andare.”
Il ragazzo chiuse la porta, come ipnotizzato. Un refolo d’aria impolverata s’alzò e
vorticò per la stanza. Jean si sedette sul letto, con una mano sulla fronte, a
pensare.
Pensò così tanto che presto perse conoscenza. Si addormentò in preda ai sensi di
colpa, figurandosi gli occhi sprezzanti dell’abate che lo guardavano come si guarda
un demonio.
Nei giorni successivi, Jean non aprì mai un libro. Temeva che la sola vista di parole
e immagini potesse infiltrarglisi nella coscienza, a sussurrargli quanto era ipocrita e
perverso nell’abbandonare i voti per una corte dispotica e dorata.
Passava il tempo scoprendo truffe e inganni del fratello ai danni del popolo e
cercando di recuperare almeno in parte ai suoi errori. Visitava assiduamente i
campi, fissando i contadini lavorare e tremare di freddo. Li lasciava riposare quanto
più possibile, perché vedendo i loro volti scavati e ingenui si ricordava di quanto il
caso e non il merito l’avesse messo in una posizione superiore alla loro.
La sera aveva smesso di pregare, la veste monacale riposava in un angolo,
abbandonata.
Vide Isabel solo una settimana dopo, passeggiando al tramonto per il cortile del
palazzo. Era in compagnia di altre due fanciulle, agghindate con abiti graziosi che
avrebbero fatto invidia alla regina stessa. Stavano parlottando animatamente,
mentre lei si lisciava i capelli scuri con un sorriso infantile.
I piedi di Jean presero vita propria e in men che non si dica il monaco che da poco
aveva rinunciato ai voti era davanti alla bellissima vedova di suo fratello.
Appena lo vide, Isabel gli corse incontro con il fare di una bambina che veda un
regalo. Lo abbracciò forte come nessuno l’aveva mai abbracciato prima. Rimasero
stretti un minuto o due, fino a quando Jean non si accorse che Isabel stava
piangendo. La scostò con un misto di stupore e di compassione, le fissò gli occhi
bagnati di lacrime.
“Isabel, dev’essere stato così orribile per te…ma non ti preoccupare ora. Ora sono
qua io e vedrai che ogni cosa si sistemerà.” Non diede peso alle occhiate maliziose
delle due damigelle che conversavano animatamente, chiudendo gli occhi e
soffermandosi sul profumo di brezza marina della ragazza.
Isabel profumava di rosa quando, un mese dopo, Jean la portò all’altare. Nessuno
si stupì, tantomeno le damigelle, che si dissero molto soddisfatte di aver compreso
prima del tempo cosa sarebbe accaduto. Fu una cerimonia fastosa e geniale, i due
sposi che passavano fra le stradine lunghe della città, il popolo che gettava petali di
rosa dalle finestre delle case. Non avrebbe mai pensato di organizzare qualcosa di
tanto bello e sfarzoso, lui che fino a poco tempo prima si accontentava di un misero
pasto in un refettorio silenzioso. Sentiva, però, di dovere qualcosa a Isabel; sentiva
di doverle il mondo intero.
Dimentico ormai del passato ed ebbro della sua nuova vita, Jean ammirava sempre
più Isabel come un tesoro prezioso da conservare. Ogni volta che qualcuno si
avvicinava a lei, il marito diventava schivo e timoroso, contagiando con il suo
malumore anche gli abitanti del paesino. Si mormorava in giro che il monaco
rinnegato stava per essere punito da Dio, e questo avrebbe spiegato il suo
nervosismo angoscioso. E Jean, a forza di sentire questa strana leggenda sul suo
conto, finì per crederci.
Furono svegliati da un grido poco prima dell’alba. Jean s’infilò alla svelta i vestiti,
tremando. Il grido si era trasformato in un singhiozzo disperato che sconquassava i
muri del castello. Passi di corsa attraversavano i corridoi, mormorii soffocati si
avvicendavano per le stanze mentre il padrone di casa usciva, infreddolito e
spaventato.
Scese le scale con il cuore in gola, presagendo nel cuore quante più sventure la
sua mente potesse partorire. Arrivato davanti alla porta della camera di Isabel,
esitando un poco, bussò. Quando vide la ragazza aprirgli, con il volto stanco e le
lacrime agli occhi, fu preso da un sollievo meraviglioso e terribile. Le afferrò le mani
saldamente, come se avesse avuto paura di perderla, e la trascinò giù per le scale,
nel cortile illuminato da un sole appena sorto.
Un capannello di persone si era riunito a semicerchio. Una donna singhiozzava
poco lontano, coprendosi gli occhi con entrambe le mani.
Jean si fece avanti spintonando, con il cuore in gola. Chiedeva cos’era successo a
gran voce, minacciando punizioni se si fosse trattato di un falso allarme, quasi per
convincere se stesso che di nulla si trattava.
Arrivato al centro del capannello, però, non poté negare l’evidenza. Davanti a lui
stava il cocchiere, steso supino per terra con un pugnale piantato nel ventre.
Arretrò, spaventato, rischiando di inciampare in uno dei curiosi che si erano riuniti
dappresso. Poco a poco il brusio aumentò e non una persona volle perdersi il
tremendo spettacolo: l’intero paese affluì sul luogo del misfatto, mentre Jean,
recuperando in parte la lucidità, cercava di disperderli menando ordini per aria.
Isabel fissava la scena da lontano, impietrita. Quando Jean le si avvicinò per
consolarla, la ragazza lo fulminò e corse via, lasciandolo con una mano in aria,
parole in bocca e un nugolo di dubbi per la testa.
Appena mise di nuovo piede nella sua camera, crogiolandosi in nefasti pensieri,
Jean osservò una piccola ombra sul balcone. Pensò bene di premunirsi, così tornò
di gran carriera in cucina e prese una ramazza. Sollevandola in aria e cercando di
fare meno rumore possibile, per cogliere lo straniero di sorpresa, entrò sul balcone.
L’ombra si era spostata sul cornicione di pietra e aveva assunto la forma di un gatto
dagli occhi gialli e dal folto pelo nero.
Uomo e gatto rimasero a guardarsi stupefatti ed incerti sul da farsi. Poi, l’animale
allungò la coda sinuosa e, con un rude miagolio, balzò giù dal balconcino. Jean lo
seguì con lo sguardo e si avvide con sorpresa che non solo non si era fatto nulla,
ma addirittura stava zampettando gaio verso il cortile dov’era stato trovato il
cocchiere.
Jean rientrò nella sua camera in fretta e furia. Si sedette sul letto, ansimando, e
tutte le splendide miniature che aveva osservato sui libri nello scriptorium
danzarono davanti a lui in un ballo frenetico ed allucinato. Gli occhi del gatto nero lo
inchiodavano come pugnali al letto. Non riusciva ad alzarsi senza vederli, senza
ricordare la sequenza di immagini e di testi sacri che mettevano in guardia da
draghi, serpenti, galli e gatti neri in generale, perché il demonio sceglieva proprio
essi per tentare l’uomo.
Un terribile delitto era stato compiuto; e nello stesso tempo, nel castello ricco di
candide colombe appariva un gatto nero, totalmente fuori luogo, totalmente fuori
controllo.
Compariva proprio nella sua camera, come per avvertirlo. Già, ma di che cosa?
Cosa poteva sapere lui, un povero principe secondogenito, monaco rinnegato, delle
trame del Maligno? Nulla, assolutamente nulla. Era meglio non farsi domande,
aspettare e premunirsi. Se il Male era giunto in quel luogo, non c’era nulla da fare
se non trovarlo e sradicare l’erbaccia.
Al tempo in cui era al monastero, faceva spesso visita all’orto. Non lavorava
precisamente lì, ma amava osservare le movenze dei suoi compagni o dei
contadini pagati dal monastero, mentre estirpavano le erbacce per raccogliere i
frutti buoni di Madre Terra.
“Vedete? La natura è il riflesso del mondo umano. Come noi togliamo le erbacce
per conservare solamente le piante buone per l’alimentazione o per la medicina,
così il Giorno del Giudizio gli uomini malvagi saranno cacciati e gli onesti
trionferanno.” Jean non era così sicuro a questo proposito, ma annuiva con vigore
e lasciava William di Canterbury a fissare con orgoglio le proprie zucchine.
Nei giorni seguenti, sentiva occhiate appuntite all’interno del castello. Tutti
sembravano dubitare di tutti e additare il proprio vicino come colpevole. Senza però
dire nulla, perché non si sa mai che l’assassino avesse intenzione di perseverare
nel suo errore.
Jean aveva ordinato ai soldati e ai cortigiani di cercare chiunque potesse avere a
che fare con il delitto e di portarlo al suo cospetto. La ricerca ebbe come risultato
una povera vecchia che non sapeva nemmeno tenere in mano un coltello e un paio
di giovani uomini che nemmeno si trovavano lì, a quell’ora. Allora Jean scuoteva la
testa, congedava i sospettati con scuse poco sentite e rifletteva di nuovo.
Fu allora che lo vide. Il gatto nero strisciava come un serpente nel salone.
S’aggrappò alla sedia con le unghie, tremando di spavento. Quando si voltò verso
Isabel, vide che era assolutamente tranquilla e che non aveva distolto lo sguardo
dal suo ricamo.
“Isabel! Isabel, guardate!”. Jean indicò con il dito tremolante il muro su cui era
proiettata l’ombra del gatto. La ragazza alzò gli occhi ed esclamò:
“Che cosa? Io non vedo proprio nulla.” Jean sgranò gli occhi. Com’era possibile
che non lo vedesse? Era un gatto nero, proprio lì, davanti a loro. Sembrava quasi
che li stesse salutando con la sua coda sempre in movimento.
“Cosa dovrei vedere, caro?” domandò Isabel. Incrociò il suo sguardo. Nei suoi
occhi c’era un grosso punto interrogativo. Jean fece spallucce e concluse: “Niente.
Solo un’ombra.”
La ragazza si alzò in piedi, irritata forse per quello strano episodio. S’avviò verso la
porta ed oltrepassò il gatto senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
A Jean parve che l’animale stesse ridendo.
La colazione era più ricca del solito; evidentemente il raccolto stava procedendo
bene, nonostante la terribile gestione di suo fratello. Jean era riuscito in poco meno
di un anno a riportare sulla retta via le finanze e la corte, sempre servizievole nei
riguardi del suo principe, che periodicamente passava a controllare.
Il principe Claude era un gentiluomo d’altri tempi, nato forse all’epoca di Carlo
Magno e mai evolutosi. Indossava una spocchiosa palandrana rossa che a lui
pareva molto elegante; e ogni volta che visitava il borgo trovava qualcosa da ridire
su questo o quello.
Jean mandava giù con un sorriso di circostanza e diceva di non veder l’ora che
arrivasse di nuovo a fare visita. Che poi desiderasse non vederlo mai più, quello
era un discorso a parte.
Jean stava per alzarsi quando osservò la moglie all’altro capo del tavolo. Era
pallida in viso e sembrava aver pianto. Una delle due damigelle che
l’accompagnavano sempre scuoteva la testa con un sommesso mormorio.
L’uomo, infastidito, esclamò: “Che c’è che non va? Qualche nuova disgrazia?”.
Il tono era ironico, ma le donne parvero prenderlo alla lettera. La damigella si
arrischiò a parlare per prima e disse: “Siamo solo preoccupate per voi, signore.”
Questa gli giungeva nuova alle orecchie. Non avevano alcun bisogno di essere
preoccupate per lui, ora che andava tutto a gonfie vele.
“E perché mai?” esclamò, seccato.
Isabel si strinse nelle spalle. Il suo fare infantile era sparito. “Jean, credo che tu stia
lavorando troppo. Stanotte sono entrata nella tua stanza perché ho sentito uno
strano rumore. Eri seduto a terra e parlavi da solo. Dicevi di rivolgerti a un gatto.
Non c’era nulla, però, Jean.”
L’uomo si alzò con uno scatto. Le donne sospirarono mentre lui se ne andava, di
corsa, su per il corridoio. Si barricò in camera sua chiudendo la porta con quante
più mandate poteva; poi, corso sul letto, iniziò a riflettere fissando il muro.
Non ricordava di aver parlato con un gatto. Né di essersi svegliato la notte, o di
aver visto sua moglie entrare. Forse era troppo stanco, o forse stava impazzendo.
Chissà. Dicevano che un germe di follia sta in tutte le casate nobiliari.
Quella notte, però, era deciso a rimanere sveglio per scoprire cosa stesse
accadendo.
Armato di candela e borbottando fra sé, tanto per non addormentarsi, Jean se ne
stava seduto sul pavimento a far quadrare alcuni conti. Combatteva con il sonno
ormai da ore, guerra infinita e destinata ad avere un solo vincitore. Jean si
addormentò e, poco prima di chiudere gli occhi, gli parve di vedere davanti a sé un
gatto nero.
Trattenne un urlo quando si svegliò. Si trovava disteso sul suo letto, vestito di tutto
punto ma senza scarpe indosso. Si alzò di scatto, giusto in tempo per rendersi
conto che impugnava un coltello nella mano.
Era sporco di sangue.
Inorridito, Jean barcollò verso la finestra. Scagliò il coltello più lontano che poteva,
come per liberarsi delle prove di un misfatto che non sapeva di aver compiuto.
Doveva ragionare. Che cosa stava succedendo alla sua mente?
Era l’influsso malefico del gatto nero, venuto a punirlo perché aveva sciolto i voti.
Era certamente così. Ogni volta che lo vedeva perdeva per un attimo coscienza
delle proprie azioni, soprattutto durante la notte, quando la coscienza riposa.
E al mattino, quando si svegliava, aveva un lapsus nella memoria. Non ricordava
dove fosse stato, né perché, ma quel coltello in mano e quegli abiti indosso
potevano significare una sola cosa: era uscito, uscito per compiere un atto terribile.
Chi era stata la sua vittima? Come poteva dissuadere gli altri dal sospettare di lui?
Come un ossesso, la mano tremante, iniziò a togliersi di dosso i vestiti. Li ripose in
un angolo dove nessuno li avrebbe visti, poi scese a lavarsi la faccia con l’acqua
fredda raccolta dopo la pioggia. Si fissò nello specchio e vide i suoi occhi diventare
gialli per un istante. L’istante dopo erano ancora i suoi, fissi sullo specchio e
inorriditi.
Per tutto il giorno camminò impaziente lungo le torri del castello, aspettando di
scoprire la sua vittima. Solo una volta gli parve di vedere il gatto nero; e allora si
mise a gridare, facendo accorrere le povere domestiche. Disse loro di essere
inciampato: il gatto nero era ormai scomparso.
Era quasi mezzanotte quando sulle scale a chiocciola della torre fu ritrovato il corpo
senza vita della madre. La vecchia aveva chiuso gli occhi spenti, colpita sulla
schiena da quello che sembrava un coltello. Una disperata caccia fece ritrovare
l’arma del delitto vicino a una siepe, dove Jean l’aveva scagliata.
L’uomo dissimulò il suo dolore e si avvicinò alla madre per esaminarla. Non c’erano
indizi che potessero portare a lui. Solo dopo questa lucida constatazione fu preso
dal pianto e si abbandonò nei singhiozzi per una disgrazia che sapeva di aver
causato.
Perché commetteva tutto ciò? Chi sarebbe stata la prossima vittima, dopo un
cocchiere allegro e una vecchia madre sola? Non poteva permettere che il gatto
nero avesse di nuovo il sopravvento, a costo di non dormire più o di chiudersi in
camera.
Fu proprio ciò che fece la sera seguente.
“Perché vi chiudete in camera?”.
“Ho paura che l’assassino sia ancora a piede libero.”
Ed era vero. L’assassino era a piede libero e lui, serrando quella porta, lo
imprigionava.
Si sarebbe fatto portare il cibo per sopravvivere e avrebbe assaporato l’aria dalla
sua finestra. Gli parve una soluzione ideale e si addormentò a cuor contento,
conscio di aver ormai sconfitto il suo male.
Le palpebre gli sobbalzarono quando vide di nuovo il gatto nero davanti a sé. Era
entrato dalla finestra, o forse da un muro, come un fantasma. Si fissarono in
silenzio, sfidandosi a duello con lo sguardo. Il gatto lo accusava come aveva fatto
prima l’abate; lo accusava con lo stesso sguardo dei contadini che lavoravano per
lui, che non aveva meritato nulla; lo accusava con lo stesso sguardo di Isabel,
quando le aveva chiesto di vedere il gatto nero senza che lei lo potesse scorgere.
Gli venne in mente Isabel e volle correre a proteggerla. Aprì la porta, ma era già
aperta. Con un rantolo di stupore, si precipitò giù per le scale e il gatto nero frutto
del demonio e della sua follia lo seguiva, rincorrendolo. Voleva prendere Isabel, lo
sapeva. Ma lui l’avrebbe salvata. Non avrebbe permesso che il gatto nero si
prendesse anche lei.
Corse fino a quando non fu sicuro di aver seminato il gatto. Sospirando
rumorosamente, sollevato per quella sua nuova libertà, entrò nella camera di Isabel
senza bussare.
Voleva renderla felice, voleva proteggerla dal mondo.
Quando aprì la porta, Isabel era a letto. Sdraiata in una pozza di sangue.
Jean si guardò le mani e notò con sorpresa che anch’esse erano sporche di
sangue, madide di un sudore assassino. Il gatto nero miagolava fra i capelli della
ragazza.
Jean chiuse la porta, piangendo disperato. Fissò le mani rosse. Il gatto nero lo
seguiva.
Lo calciò via con una rabbia mai provata, poi fissò il cielo.
Avrebbe strappato l’erba del peccato, pensò, con un’altra erba meravigliosa, che gli
antichi chiamavano pharmakon. Rimedio, pozione, ma soprattutto veleno.
Il mattino dopo i domestici non riuscirono a svegliare il padrone.
Michel tornò da Gerusalemme in tempo per i funerali dell’amato fratello Jean.
Mentre uno stormo di piccioni volteggiava in cielo, sopra al castello, l’uomo fissava
la vedova inconsolabile, Isabel, bellissima nel suo dolore. Ogni tanto incrociavano
gli sguardi e si sorridevano come si sorride solo chi condivide un segreto. La
ragazza si fece il segno della croce con una mano e, con l’altra, non smetteva di
accarezzare il gatto nero che portava in braccio. Poco dopo la cerimonia, tornati al
castello come piccolo e improvvisato corteo funebre, Isabel entrò nella stanza del
marito e prese i suoi vestiti dall’angolo.
Il gatto continuava a girarle attorno, muto testimone della sua coscienza. Isabel si
sfilò di dosso il mantello nero che copriva la candida veste colorata di rosso: ci
sarebbero voluti giorni per lavarla e – per non destare sospetti – la ragazza aveva
deciso di bruciarla insieme ai vestiti del marito. Mentre raccoglieva le ultime ceneri
del suo misfatto e le gettava dalla finestra, il gatto premeva per uscire. Negli ultimi
tempi erano stati compagni inseparabili, lui e Jean: Isabel l’aveva istruito a seguirlo
sempre. E lei, da ingrata, fingeva di non vedere quegli occhi gialli e vividi, perché
uno può essere folle, ma due persone no.
Un piccolo omino a cui aveva dato il nome di coscienza le bussava nel petto, ma lei
lo soffocava come aveva sempre fatto. Dopotutto, si era limitata a stare al gioco e
ad alimentare le strane superstizioni del marito. I delitti erano tutt’un’altra storia, di
cui non si era per nulla macchiata. Era stato Michel, con lo stesso pugnale, ad
uccidere prima il cocchiere e poi la madre, uniche persone ad aver ricevuto la
notizia della sua morte a Gerusalemme e che, in caso fosse tornato, si sarebbero
stupiti non poco.
Il popolo, infatti, nulla sapeva. Per la gente, un fratello valeva l’altro e non si erano
chiesti la ragione di quello scambio, né avevano voluto intromettersi negli affari
privati dei signori del castello. Mai fare domande, se si vuole sopravvivere. Chi sa
troppo, fa di solito una brutta fine.
Isabel aveva amato davvero Jean. C’era qualcosa, in lui, di caro e dolce che le
smuoveva il cuore e la riportava agli anni in cui era stata bambina. Era stato un
buon compagno da vivo, perfetto ora che non esisteva più. Michel aveva combinato
una serie di guai e di truffe che l’avevano portato ad indebitarsi con chiunque
l’avesse conosciuto. Se il principe Claude avesse scoperto i suoi madornali errori
ed inganni, non si sarebbe risparmiato e l’avrebbe gettato in prigione o sul rogo,
insieme a quella meravigliosa creatura che era sua moglie. Se solo il caro e
bizzarro fratello Jean, per qualche motivo, fosse intervenuto a sanare i conti come
solo lui sapeva fare – e a prendersi le responsabilità in caso venisse svelata la
truffa prima del tempo…
Impossibile, impossibile. A meno che, una volta regolati tutti i conti, Jean non
sparisse…
Isabel si girò. Il gatto la guardava dal davanzale della finestra, tremando.
La giovane se lo mise in grembo e lo cullò piano. Proprio prima di chiudere gli
occhi, il gatto la fissò con quelle sue lanterne gialle.
Le parve che fossero gli occhi di Jean. Ma era solo una sensazione.
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