Femminismo intersezionale e perché non esistono battaglie che non ti riguardano
Data pubblicazione: 20 Gennaio 2022
Scritto da: Irene Arneodo
“Se non siamo intersezionali alcune di noi, le più vulnerabili, cadranno tra le crepe” Kimberlé Crenshaw
1989. Kimberlé Crenshaw, giurista impegnata principalmente nella tutela dei diritti delle donne nere, pubblica uno studio destinato a fare la storia del femminismo, a definire la quarta ondata femminista, quella in cui ci troviamo tuttora, e a rivoluzionare il pensiero femminista, oltre che l’attivismo in generale. Il suo titolo è “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”, e da esso emerge come nei casi giudiziari le questioni riguardanti per esempio la violenza domestica all’interno di famiglie nere venissero sempre trattate o dal punto di vista della violenza di genere oppure con un approccio razzista, che teneva grande considerazione solo del fatto che le persone coinvolte fossero nere e non del fatto che ci fosse una dinamica anche di genere.
Kimberlé Crenshaw chiama questo concetto di sovrapposizione (o “intersezione”) tra le diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni e dinamiche di potere, Intersezionalitá.
Grazie a lei nasce il femminismo, o transfemminismo, intersezionale.
Il termine “intersezionale” lo prende in prestito dalla matematica: in geometria, il punto d’incontro tra due rette si chiama intersezione. Una retta orientata, con un nord e un sud, un sopra e un sotto, prende il nome di asse. Uno degli scopi degl’assi è quello di stabilire ordini e rapporti di subordinazione: mettendo due numeri in fila lungo un asse sappiamo sempre dire quale tra i due sia il maggiore e quale il minore. Allo stesso modo, tra le persone, non è difficile dire quali siano più rilevanti delle altre: gli uomini lo sono più delle donne, le persone bianche più di quelle nere, gli eterosessuali più degli omosessuali, chi ha un corpo abile più di chi possiede disabilità e via discorrendo.
Ma dove si colloca dunque una donna nera e lesbica? Ogni persona può essere attraversata da più di un asse di oppressione e trovarsi quindi in punto di intersezione. A questo punto,
come schierarsi? Al fianco donne bianche per combattere il maschilismo, a lato degli uomini neri contro il razzismo o ancora con la comunità lgbtq+, contro l’omolesbobitransfobia?
Se il concetto di intersezionalità è stato teorizzato per la prima volta da Kimberlé Crenshaw attraverso i suoi studi, dal punto di vista concreto dei movimenti, delle lotte e delle conquiste concrete, nelle piazze e nei collettivi, esso è nato proprio da gruppi di femministe nere e/o lesbiche che, alla fine degl’anni anni Settanta, presero coscienza di subire una doppia oppressione e di essere escluse e discriminate dalle stesse compagne di lotta bianche ed eterosessuali.
Prendere in considerazione le intersezioni tra assi di oppressione rende l’analisi politica e sociale più complessa, ma più autentica e la lotta più consapevole, completa, collettiva ed efficace. Il femminismo intersezionale non accetta di usare un’unica chiave interpretativa e di ridurre tutta l’esperienza di una persona ad unico asse di oppressione, ma considera tutte le oppressioni interconnesse e basate su una percezione unilaterale del mondo che vede il maschio, bianco, eterosessuale, cisgender (benestante, senza disabilità, occidentale, di mezza età e con tutta una serie di caratteristiche) come la norma, oggetto più o meno consapevole del privilegio e più o meno consapevolmente incline a difenderlo, e quindi tutto ciò che si discosta da questa norma, vista come neutrale (ci avete mai pensato? L’uomo è l’essere umano mentre la donna è femmina), categoria da invisibilizzare e marginalizzare.
“Non sarò libera finché ogni donna non sarà libera, anche se le sue battaglie sono molto diverse dalle mie” Audre Lorde
E’ per questo che le femministe intersezionali non si accontentano di combattere il patriarcato, ma combattono anche razzismo, abilismo, omolesbobitransfobia, perché è discriminazione di genere anche discriminazione che attraversa il genere, per ridurre all’appiattimento sociale che non ammette diversità. Anche quando non si tratta di discriminazioni che le toccano in prima persona, schierandosi a fianco di coloro che subiscono ogni particolare tipo di discriminazione, ponendosi l’abbatterle come obiettivo. Anche perché non tutti gli esponenti di ogni categoria marginalizzata o oggetto di discriminazione si trovano nella posizione di potersi ribellare. Questo rende dovere di chi può, farsi portavoce di chi non ne è nelle condizioni.
Ed è per questo che non bisogna essere femmina per femminista, e che è anche responsabilità degli uomini, dall’alto del loro privilegio, affiancare le donne in queste battaglie, tenendo conto del fatto che neanche loro hanno la parità di genere e che nel caso dovesse capitargli di discostarsi dal ruolo di genere imposto dalla società tanto alle donne quanti agli uomini, ecco che anche loro, bollati come “finocchi” o “femminucce”, precipiterebbero dal piedistallo macchiatisi dell’orribile crimine di non essersi comportati secondo le aspettative e come comanda la mascolinità tossica: il femminismo non è nemico degli uomini, il patriarcato è nemico di tutti.
Ciò che è necessario è quindi l’avviarsi di un processo di destrutturazione di mentalità e comportamenti più o meno inconsci basati su dinamiche oppressori-oppressi e diretta dai dettami di una società patriarcale nella quale tutti e tutte, senza eccezioni, siamo immersi dalla nascita.
“Scenderò in piazza in nome del femminismo intersezionale, che unisca le varie forme di oppressione” Jenny Ruffa
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