Aspettando il sole
Data di pubblicazione: 18/03/2022
Scritto da: Davide Varacca
Era piena, Santa Maria Assunta.
Piena fino all’orlo, fino all’ultima panca in legno posizionata sul ciglio del portale, immenso,
come lo strazio di mamma Giovanna.
Non è la mia, di mamma, ma quella di un’amica.
Un’amica che non c’è più.
Quanto ha pianto la signora Giovanna, tanto che Don Paolo si è visto costretto ad
interrompere l’omelia, più e più volte.
Due ore e un quarto, il funerale più lungo della storia, senz’altro per quanto riguarda
Terenzo.
Il mio è un paese piccolo, minuscolo, misero quanto un chicco di riso disperso in mezzo al
gran mare del frumento, quello che il nonno soleva coltivare al largo di Sant’Ilario, verso
l’Enza.
Terenzo fa duemila trecento ventisette abitanti, esattamente da quarantatre ore e diciotto
minuti, esattamente da quando Clara Ferri ha deciso di togliersi la vita.
Clara aveva la mia stessa età, diciannove anni.
Dacché ho memoria, non ricordo il viso di Clara privo di gioia: aveva sempre un sorriso
smagliante stampato sui denti, contagioso, letteralmente allineato alla nostra leggerezza,
tutta pallone, estathè e sigarette.
Una scoperta dietro l’altra, un bacio dopo l’altro, fino alla famigerata prima volta, che devo
ammettere non sia quel granché, giusto un antipatico paletto da saltare piè pari, al momento
adatto, né troppo presto, né troppo tardi.
Clara aveva gli occhi azzurri con una linea dorata attorno alla cornea, una bolla di sapone
perfettamente circolare, che mai e poi mai mi sarei sognato di desiderare.
E invece, una sera di Luglio, me ne innamorai.
Perdutamente.
Fu la botta del secolo, anche peggiore del terremoto che fece vibrare la credenza di zia
Francesca nel 2008.
Ero un folle ubriaco, mentre cantava perso alla luna, sul fondo della notte.
Per me, Clara era come Beyoncé per il pop: una regina.
Il problema è che io, per Clara, ero l’amico sfigato di Jay-Z, un banale portaborse sfaticato,
mezzo rimbambito.
Sì, perché a me Clara manco filava.
A lei piaceva da matti il mio miglior amico, Armando Fontanesi, detto Fonta per gli stretti.
Fonta è il prototipo del “manzo”: alto un metro e ottanta, tonico per tre quarti, con un blocco
di marmo al posto della pancia.
Biondo come un bicchiere di Franziskaner, amaro come la vita dei suoi genitori, che non se
lo litigavano troppo, il povero Fonta, nemmeno per il suo compleanno: spesso e volentieri, lo
trascorreva con la mia, di famiglia, mentre la sua mamma era impegnata altrove, chissà con
chi e chissà dove, ed il babbo lo stesso, attaccato fisso alla bottiglia.
No, Fonta non aveva avuto un’infanzia serena, ma proprio un’infanzia del cazzo, scandita
dalle botte, dappertutto e di ogni genere.
Sulle gonadi, in mezzo allo stomaco, giù per la gola, in fondo al setto, perché non dritte nei
denti.
Quasi lo giustificavamo, ad essere così stronzo.
Persino la buon’anima di Priamo Casamonti, storico sindaco di Terenzo, lo graziò più di una
volta, tramutando crimini di prim’ordine in bravate di seconda mano.
“È soltanto un ragazzo sfortunato” ripeteva sempre il vecchio Priamo, che riposi in pace.
Sfortunato o meno, Clara era pazza di lui.
Non so se a causa del suo fascino ribelle, alla James Dean, se per il suo fisico
mediterraneo, letteralmente classico, oppure se investita di un banalissimo animo
crocerossino, io davvero non lo so.
Quello che so, è che io non lo sopportavo.
Ero fisicamente irritato dalla loro felicità.
Il motivo?
Io non ero lui, il fidanzato, ma Fra, l’amico geloso di entrambi.
Quante volte Clara è accorsa in lacrime tra le mie braccia, quante volte l’ho consolata,
sperando in un epilogo rosa.
E quante volte, invece, lei mi parlava di Fonta.
Quante volte è tornata da lui, lasciandomi lì, uno stoccafisso imbarazzato, schiavo degli
eventi, nonché dei rimorsi.
Era davvero piena, Santa Maria Assunta, ieri sera.
Dentro a quel mogano, Claudia brillava come lo facevano i fuochi di Zio Beppe, il 15 di
Agosto.
C’eravamo tutti: c’ero io, Gigi, Turris, Eleonora, Claudio, Sandra e Marcello.
C’era anche Marchetto e quella sì che fu una sorpresa: Marco Santini ha l’apparecchio, un
chilo di acne lungo il corpo, gli occhiali spessi alla Austin Power ed un caschetto unto di olio
31 al posto dei capelli.
In una parola?
Secchia.
Certe mattine, il cancello del nostro Liceo somigliava maledettamente al varco
dell’Antinferno, per Marchetto in particolare.
Siamo stati orribili con lui, compresa Claudia.
Lo chiamava “Brufolo”, ogni qualvolta le fosse concesso: non importa se in corridoio oppure
dinanzi al preside, non importa se in tono amichevole e scherzoso o per distruggerlo a livello
emotivo.
Sempre “Brufolo”.
La sua presenza al funerale mi sconvolse.
Mi trasmise la reale portata della nostra tragedia.
C’eravamo davvero tutti, anche chi avrebbe potuto, anzi dovuto, odiare Clara.
Tutti, tranne Fonta.
E forse, fu meglio così.
D’altronde, la morte di Clara portava soprattutto la sua firma.
Tra loro, fu un tira e molla continuo, abbastanza noioso, un unico copione rivisitato allo
stremo: Fonta ne combinava una, Clara se ne andava per un tot, finché il Casanova della
Valtaro non abbassava il capo, chino sui propri sbagli, alla ricerca di perdono ed endorfine.
Corna, spintoni, umiliazioni e schiaffoni.
Il loro rapporto dimostrava la teoria commutativa alla perfezione, dove il risultato non
cambiava.
Mai.
L’ultimo loro litigio, però, superò ogni limite ed io ne fui complice, mio malgrado.
Qualche giorno prima del fattaccio, Fonta mi inviò una foto.
Una foto di Clara, una di quelle che mai avrei pensato di ammirare coi miei occhi.
Il suo seno rotondo e minuto, leggermente asimmetrico, comunque perfetto.
Condito in mezzo ai suoi fianchi, il suo ventre: geometrico, puro, chiaro come fu il mio
desiderio.
Una creatura rara, celata dentro uno scatto sfocato, persa tra boccoli e lenzuola, l’imbrunire
e l’evidente.
Era bellissima, la mia Clara.
Avrei fatto qualsiasi cosa per averla, anche per una notte soltanto.
Qualsiasi cosa, finanche la più maligna.
E la feci.
Pensai a tutti quei tramonti trascorsi in sua compagnia, a raccogliere le sue lacrime ed i suoi
lamenti, cercando di trascinarla a fatica da una rotta verso un’altra.
Pensai alla fatica, ai rospi ingoiati, alle notti insonni per colpa di un fegato rovente.
Pensai, inoltre, che Fonta non se la meritava una ragazza così, una come Clara.
Gentile, a modo, sensibile e generosa.
Un essere umano, stupendo.
Fonta è un coglione maleducato ed egoista, arrogante, pieno di sé: la totale nemesi della
mia Clara.
Che cosa mai ci avrà trovato in lui?
Io sì, che la capivo.
Io sì, che sarei stato un tenero amante, degno della sua purezza d’animo.
Io sì, che ero giusto per lei.
Così, sbandierai la sua intimità ai quattro venti.
Lo feci in anonimo, stando attento a non essere scoperto, cosicché il mio piano potesse
andare a segno: la colpa sarebbe ricaduta su Fonta e Clara lo avrebbe lasciato.
Per sempre.
Ci avrei pensato io a Clara, al suo dolore, al suo violato senso del pudore.
Dopotutto, erano solo un paio di tette, niente di che, niente che non fosse già stato
ampiamente sconsacrato dall’avvento del web.
E invece, Clara non prese il fatto alla leggera, anzi.
Per lei, non erano solo un paio di tette.
Era il tradimento di un sentimento, di una tacita promessa.
Era la fine di una storia d’amore importante, la più importante di diciannove lune.
Un oltraggio, l’ennesimo, il peggiore: mortificata dall’amore.
Il piano funzionò, ma solamente a metà.
Clara si scolò una bottiglia di candeggina.
D’un fiato.
La mia Clara morì un sabato pomeriggio ed io le seppi al bancone di un bar, tramite un
amico in comune.
Ne fui devastato.
“È colpa mia! È colpa mia! Sono stato io!” ripetevo a squarciagola.
Tuttavia, nessuno mi credette.
Tutti puntarono il dito contro Fonta, compresi gli stessi che avevano ricevuto la fotografia,
come me.
Gli stessi che la inoltrarono a molti altri.
Proprio come me.
Era davvero piena, Santa Maria Assunta.
Piena di colpevoli ed un innocente soltanto: sdraiata in una cassa, con le palpebre serrate,
in attesa di grazia.
Aspettando il sole.
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