Fly me to the Moon(ey)
Data: 21 Dicembre 2023
Tag: Cultura
Di: Matilde Malandri
Missioni spaziali tra fanta-scienza e realtà
È durata 25 giorni, dal 16 novembre all’11 dicembre 2022, la missione di Artemis 1, l’ultimo razzo della NASA partito dalla base di Cape Canaveral, in Florida. Si potrebbe pensare ad un anonimo lancio; un anonimo razzo tra i 1796 oggetti lanciati negli Stati Uniti nel solo 2022.
E invece no: il programma Artemis, nell’agenda americana fin dal 2005, rappresenta, per le sue caratteristiche, il pretesto ideale per analizzare la situazione della National Aeronautics and Space Administration -ma, in generale, dei principali enti spaziali statali mondiali- e il suo rapporto con un nuovo settore di avanguardia in ambito cosmico, ossia le agenzie spaziali private.
La Luna, atto II
Come si può leggere dal sito web della stessa NASA, l’obiettivo principale del programma Artemis è “portare la prima donna e il primo uomo di colore sulla Luna”, esplorare più a fondo la superficie di questa, stabilire una presenza umana permanente sul nostro satellite naturale per colonizzarlo e fondare una nuova economia lunare e, utilizzando i dati raccolti durante le spedizioni, preparare le future missioni dirette a Marte. Alla scoperta e l’ispirazione per le future generazioni, quindi, che sembrerebbero gli unici principi fondanti del programma, si aggiunge la cosiddetta “opportunità economica”, che, secondo la National Aeronautics and Space Administration, consisterebbe in “alimentare nuove industrie, supportare la crescita del mercato del lavoro e promuovere la richiesta di forza lavoro qualificata”.
Non è la prima volta che la NASA indirizza gli scopi di una missione spaziale al di là del mero aspetto scientifico-tecnico; anzi, a dirla tutta, risulta più difficile ricercare dei programmi che non contengano dei doppi fini. Fin dalla sua nascita, infatti, avvenuta nel 1958 (se non si vogliono contare le missioni spaziali pre-NASA, di cui la più importante fu la missione Hermes del 1946-47 con scopi bellici), l’ente nazionale spaziale statunitense è risultato fondamentale nell’andamento degli accadimenti geopolitici di quegli anni. Infatti, Il National Aeronautics and Space Act, la legge-atto di nascita della NASA firmata dal presidente Eisenhower il 29 luglio 1958, fu una delle iniziative perpetuate dagli Stati Uniti per riaffermare la loro supremazia nei confronti dell’Unione Sovietica, minata dal lancio, nel 1957, del primo satellite artificiale in orbita attorno alla Terra, Sputnik 1 (il contesto è quello della cosiddetta “Crisi dello Sputnik”). Con l’atto legislativo, la National Aeronautics and Space Administration inglobava il National Advisory Committee for Aeronautics (NACA) -che dal 1947 aveva testato aerei a razzo- con relativi dipendenti e fondi, tre importanti laboratori di ricerca (Langley Aeronautical Laboratory, Ames Aeronautical Laboratory e Lewis Flight Propulsion Laboratory), due strutture di prova ed elementi della Army Ballistic Missile Agency (ABMA), oltre che lo United States Naval Research Laboratory (NRL). Questo impiego massiccio di risorse, quindi, corrispondeva all’altrettanto alta aspettativa da parte del Governo di “vincere” la “corsa allo spazio”, ossia quel periodo di circa un ventennio che vide scontrarsi le due superpotenze, USA e URSS, per il raggiungimento di importanti traguardi nell’esplorazione spaziale via via sempre più importanti. Dal quartier generale di Washington, quindi, si iniziarono a pensare delle nuove missioni spaziali, a seguito di quelle avvenute in tutto il corso del 1958 -31 gennaio, 17 marzo e 18 dicembre, rispettivamente Explorer 1, Vanguard 1 e Project SCORE-, aventi come finalità delle conferme scientifiche e l’immissione nell’orbita terrestre di due satelliti sperimentali. Si arrivò così a Mercury, il primo programma spaziale della NASA a prevedere un equipaggio umano; sottotitolo: la risposta statunitense al volo del sovietico Jurij Gagarin. Nel lasso di tempo tra il 1958 e il 1963, infatti, i ben 26 lanci attestati, tra test, missioni e voli programmati, consentirono da un lato di inviare i primi americani nello spazio, dall’altro di aprire un varco a programmi ben più ambiziosi. In un famoso discorso tenuto il 25 maggio 1961 davanti al Congresso, il neoeletto presidente John Fitzgerald Kennedy annunciò che, entro un decennio, il primo uomo statunitense avrebbe messo piede sulla Luna: era giunta l’ora di Gemini e Apollo. Il primo programma, che si sviluppò in 12 missioni tra il 1964 e il 1966, fu essenzialmente il banco di prova delle principali tecnologie che avrebbero portato, con le 33 missioni di Apollo (1961-1972), il primo uomo sulla Luna. Dopo i grandi successi di questi programmi, cavalcando l’onda di notorietà che aveva provocato, in particolare, la missione Apollo 11 e il suo successo in campo mediatico e geopolitico -tale progetto ebbe la funzione di collante sociale tra il fronte di destra e di sinistra, catturò l’immaginazione collettiva e giocò un’importante ruolo antisovietico- il Governo procedette con l’attuazione del programma Skylab (1965-1979, 4 missioni di cui 3 con equipaggio), l’ultimo dell’era della corsa allo spazio, che portò alla costruzione della prima, e finora unica, stazione spaziale statunitense indipendente. Ideata come un laboratorio immerso nel cosmo, dopo il suo lancio, avvenuto il 14 maggio 1973, Skylab risultò fortemente compromesso, in particolare per quanto riguardava i pannelli solari che lo contornavano e che costituivano la sua principale fonte di energia. Oltre ai programmi con equipaggio, in questi anni avvennero la maggior parte delle oltre 1000 missioni senza presenza umana condotte dalla NASA: iniziate con Explorer 1, godono di un occhio di riguardo il programma Pioneer del 1965, volto all’esplorazione di Giove e Saturno, il programma Viking, che nel 1968 iniziò a guardare verso Marte e le sonde Voyager, mandate in orbita nel 1977 con lo scopo di esplorare il sistema solare esterno. Con il programma Space Shuttle, teorizzato per la prima volta nel 1972, ebbe inizio una nuova era delle missioni con equipaggio: i 135 lanci, effettuati fino al 2011 con un nuovo modello di veicolo spaziale riutilizzabile, lo Space Shuttle appunto, giocarono un ruolo fondamentale sia nella fine della “tensione spaziale” tra Stati Uniti e Unione Sovietica, sia nella speranza, tuttavia disattesa, di ridurre i costi esorbitanti dei lanci e delle missioni precedentemente avvenuti. Proprio per questo, oltre che a causa del disastro dello Space Shuttle Columbia del 2003, il governo Bush iniziò a pensare a nuovi programmi che riaccendessero la passione popolare per le missioni spaziali: nacque così Constellation (2005-2009, 2 missioni compiute), i cui fini erano “mantenere la presenza americana in orbita terrestre bassa, ritornare sulla Luna con il proposito di stabilirvi un avamposto, e gettare le basi per esplorare Marte e oltre nella prima metà del ventunesimo secolo”, oltre che completare la Stazione Spaziale Internazionale (nata nel 1993). Il programma non ebbe pochi problemi, soprattutto a livello economico: con la neoeletta amministrazione Obama, infatti, si rivide l’intero progetto, valutando se effettivamente fosse possibile ritornare sulla Luna, come stabilito, entro il 2020. Il comitato incaricato riscontrò degli importanti sottofinanziamenti, che portarono, nel 2010, alla sospensione delle parti non-Orion (ossia il Crew Exploration Vehicle, un progetto inedito di veicolo spaziale parzialmente riutilizzabile con equipaggio) di Constellation, con una promessa da 6 miliardi di dollari per un nuovo programma di missili pronto per la costruzione entro il 2015, di cui alcuni destinati a dei voli con equipaggio su Marte -questi entro la metà del 2030. All’arrivo su Marte collaborarono, e collaborano alcuni tuttora, anche alcuni rover e sonde costruite a partire degli anni ‘90 del secolo scorso; tra i più importanti, si ricordano i rover Spirit e Opportunity, lanciati su Marte con delle sonde nel 2003 in ambito della missione Mars Exploration Rover (MER) e Curiosity, il robot “cerca-fossili” atterrato sul pianeta rosso nel 2012 facente parte della missione Mars Science Laboratory (MSL).
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, però, la linea politica spaziale precedentemente impostata ebbe un mutamento notevole; la prima di sei Direttive sulla politica spaziale si ebbe a dicembre 2017, quando il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti emanò un memorandum presidenziale conosciuto anche come “Space Policy Directive-1”: con il testo, Trump sostanzialmente riscriveva l’incipit della Direttiva spaziale presidenziale 4 varata da Obama nel 2010, sottolineando come la NASA debba “condurre un programma di esplorazione innovativo e sostenibile con partner commerciali e internazionali per consentire l’espansione umana attraverso il sistema solare e per riportare sulla Terra nuove conoscenze e opportunità”. Nel 2019, quindi, il vicepresidente Mike Pence annunciò l’anticipazione dello sbarco sulla Luna degli USA, fissando come data il 2024; ancora, a maggio dello stesso anno l’amministratore della NASA Jim Bridenstine rivelò il nome del nuovo programma, Artemis. E considerando le motivazioni politico-economiche già viste dietro al progetto, non sorprende che il budget del programma sia stato aumentato, a febbraio 2020, del 12%, arrivando a quota 25,2 miliardi di dollari l’anno (di cui 3,7 destinati ad un sistema di sbarco umano).
Anche con l’ultima amministrazione Biden, infine, l’apertura al settore commerciale dello spazio pare non esaurirsi: ne è un esempio l’ultimo bilaterale tenuto con la premier italiana Giorgia Meloni a luglio 2023, in cui si esplicita chiaramente che “Entrambe le parti intendono incoraggiare ulteriori investimenti nel settore spaziale e la collaborazione industriale, anche per quanto riguarda le stazioni spaziali commerciali”.
Lo spazio: the ultimate “Rich man’s world”
“Money, money, money/ Must be funny/ In the rich man’s world”, cantavano gli ABBA nel 1986. E forse tutti i torti non li avevano, almeno in ambito spaziale. Dagli albori delle moderne tecnologie aeronautiche, infatti, l’interesse dei possidenti con il naso rivolto all’insù è stato catalizzato dall’Universo e dalle sue infinite possibilità, soprattutto in campo economico e commerciale.
Dal lancio di OSCAR 1, infatti, il primo satellite amatoriale lanciato da un razzo vettore americano e Telstar 1, il primo satellite a uso commerciale messo in orbita dal primo lancio commerciale (rispettivamente nel 1961 e 1962), dovettero passare circa vent’anni prima che le compagnie private prendessero a emettere fuori dalla nostra atmosfera oggetti spaziali. È con l’avvento del nuovo millennio, però, che nascono delle vere e proprie agenzie spaziali private, ossia aziende impegnate nel settore aerospaziale ed aeronautico che si occupano della progettazione, della costruzione, del lancio e del monitoraggio di razzi, sonde, satelliti in maniera autonoma. Il pretesto viene, oltre che dai vantaggi a carattere egemonico dei singoli proprietari delle compagnie, dalla complicità della legge americana, che strizza un occhio -anzi, due come si vedrà- alla privatizzazione del settore aerospaziale. Basandosi sul Communications Satellite Act del 1962, l’ambiguo accordo del presidente Kennedy con la NASA e la Federal Communications Commission che prevedeva un indiscriminato accesso alle compagnie sottoscriventi alla FCC all’utilizzo dei satelliti, George W. Bush sottoscrisse nel 2004 il Commercial Space Launch Amendments Act, che regolamentava, in particolar modo, il turismo spaziale, poiché “permetterebbe ai passeggeri paganti di viaggiare su veicoli per voli suborbitali a proprio rischio e pericolo”; una legislazione quanto mai attuale in quegli anni, che vedevano nella figura dell’imprenditore Dennis Tito il primo turista spaziale della storia, il 28 aprile 2001. Prima del “via libera” trumpiano, infine, occorre citare il US Commercial Space Launch Competitiveness Act, varato nel 2015 dal presidente Barack Obama e che prevedeva, nel suo punto più famoso e dibattuto, un ulteriore passo indietro (dopo il passaggio, nel 1995, dell’ Ufficio del trasporto spaziale commerciale alla stessa FAA) della Federal Aviation Administration, l’organo statale preposto alla vigilanza e alla tutela dell’aviazione civile nel territorio nazionale e circostante.
Sono questi presupposti, uniti alla volontà di ristorare la situazione aerospaziale statunitense dai limiti evidenti che la NASA ha dimostrato nella sua storia, che tengono a battesimo la nascita delle compagnie di voli spaziali privati: nel 2000 nasce Blue Origin, la società del fondatore di Amazon Jeff Bezos, inizialmente istituita come azienda per voli privati suborbitali; il 2002 è l’anno di SpaceX, la startup del miliardario Elon Musk, che si pone come obiettivo la creazione di tecnologie innovative atte a ridurre i costi esorbitanti di lanci e missioni extraterrestri e, come fine ultimo, la colonizzazione di Marte. A queste due “superpotenze” si affiancano altre importanti compagnie specializzate in solo turismo spaziale, come la Virgin Galactic di Richard Branson, fondata nel 2004, per poi non dimenticare altre aziende collaterali non di minore importanza, che si occupano di costruzione, ricerca e sviluppo, come Dynetics o Rocket Lab.
Proprio l’innovazione risulta essere il nodo centrale nel rapporto tra missioni statali della NASA e contributi privati, insieme, ovviamente, all’ immediata disponibilità economica: in questo modo, infatti, le aziende mettono a disposizione dello Stato le competenze che hanno acquisito e “brevettato”, come i razzi New Shepard e Falcon 9 (rispettivamente, della Blue Origin e di SpaceX), i primi velivoli spaziali abbastanza grandi da ospitare persone ad essere riuscite ad effettuare il decollo e atterraggio verticale di alcuni moduli; questi stessi, quindi, comportano un’ulteriore passo avanti, ossia il riutilizzo di moduli e, in casi come Starship (ancora in via di sviluppo), dell’intero razzo nell’ambito di voli orbitali. Nell’ambito di una cooperazione a più livelli per raggiungere obiettivi comuni, quindi, la NASA destina alcuni fondi, regolati da patti quali il Commercial Crew Development, allo sviluppo di tecnologie spaziali innovative da parte di laboratori privati; e nonostante la regolamentazione e il controllo di questi soldi, vi sono molti interessi che entrano in gioco in questi tipi di accordi.
Infatti, ammesso -e non concesso- che i fondi utilizzati vengano usati esclusivamente per gli scopi pattuiti, vi è una parte composta da test privati e segreti aziendali che, insieme alle risorse fornite dal Governo degli Stati Uniti, permettono alle compagnie private di avere un quadro complessivo più chiaro e, in generale, di entrare in possesso di informazioni preziose non solo per il futuro dei voli spaziali, ma anche della società umana contemporanea. Non è più solo la distopia del mito dell’uomo ricco che si trasferisce in Nuova Zelanda per evitare lo smog, o del miliardario che progetta una fuga via razzo su un pianeta colonizzato: è la realtà dell’egemonia non solo economica, che potrebbe derivare dalla scoperta di giacimenti extraterrestri di materiali preziosi o risorse (si ricordi il famoso caso mediatico della scoperta dell’asteroide 16 Psyche), ma anche commerciale e addirittura politica che queste poche persone possono detenere nelle loro mani. In ambiti come questi, a spadroneggiare sulla cronaca è sicuramente SpaceX. La compagnia statunitense ha infatti avviato, pochi anni or sono, due progetti estremamente significativi ed influenti; il primo, denominato “Smallsat Rideshare Program”, consente a qualunque privato pagante di inviare in orbita oggetti di qualsivoglia natura, utilizzando razzi vettori come fossero navi cargo. L’altro programma, invece, consiste in una rete interconnessa di satelliti suborbitali atti a difendere, “come uno scudo, la sicurezza nazionale” dei governi paganti: Starshield, il “Grande Fratello” delle reti satellitari, più che un’utopia orwelliana è una realtà già assoldata, frutto dell’esperienza derivata dalla tecnologia di Starlink. Un potere immenso, che ha già dimostrato il suo peso politico nella vicenda, narrata dal giornalista Walter Isaacson nella biografia del magnate americano, dello spegnimento temporaneo dei satelliti Starlink utili all’intelligence ucraina durante l’invasione russa in Crimea.
Ma tornando alla Luna, perché il nostro satellite naturale attira ancora così tanto pubblici e privati?
Il lato oscuro della Luna
La corsa agli armamenti, per quanto riguarda Artemis, è appena cominciata. Se infatti il progetto di Starship di SpaceX è risultato il vincitore del bando istituito dalla NASA per quanto riguardava le proposte di Human Landing Systems, gli 11 studi commissionati a contratto a privati del maggio 2019 assegnano in maniera omogenea a diverse aziende il compito di ricercare, essenzialmente, prototipi di veicoli di discesa, rifornimento e trasferimento, con il dovere di contribuire almeno del 20% alla spesa totale, la cui stima si aggira intorno ai 45,5 milioni di dollari. Senza contare, inoltre, tutti gli attrezzi tecnici, le infrastrutture lunari e non, le materie prime e l’equipaggiamento necessario, dalle tute ai caschi: ogni occasione è buona, quindi, per investire qualcosa, contando nei futuri introiti della missione una volta compiuta e nella copertura mediatica dell’evento, già da adesso ampiamente sponsorizzato; il pieno possesso della Luna, infatti, o anche di parti di essa, è fuori discussione, almeno finché resteranno in vigore il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, che impone in maniera specifica la neutralità del satellite anche in ambito nucleare e il Trattato sulla Luna del 1979, firmato e ratificato però da pochissimi Paesi, in quanto sostiene, tra l’altro, l’espresso divieto di modificare il territorio lunare, la negazione a viaggi di esplorazione senza il consenso di altre nazioni e che il Segretario Generale delle Nazioni Unite sia informato di tutto ciò che riguarda la “questione lunare”.
Tutto ciò risulta particolarmente interessante anche alla luce della cooperazione internazionale che si profila nel progetto Artemis, dove la NASA -e i privati- sono chiamati a collaborare con l’Agenzia spaziale europea (ESA, con il programma Terrae Novae), l’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) e l’Agenzia spaziale canadese (CSA), quest’ultima chiamata, inoltre, ad inviare un manipolo di astronauti, insieme ai colleghi americani, in orbita. Del resto, la partnership tra SpaceX e compagne si estende già da tempo ad altre agenzie spaziali oltre a quella statunitense: basti ricordare il volo, effettuato ad aprile 2022, di Samantha Cristoforetti, su un Falcon 9 di SpaceX, nell’ambito della Missione Minerva.
Ciò che resta da capire è, inoltre, l’impatto che Artemis avrà sulla politica internazionale, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle risorse. Non è più un mistero, infatti, che molti Paesi in via di sviluppo stiano sviluppando sonde e razzi di grande potenza e tecnologia, atti probabilmente a fiancheggiare -e forse superare- le competitor “storiche” quali Europa e Stati Uniti; oltre alla Russia, infatti, meritano una menzione d’onore Corea del Nord (che sviluppa soprattutto razzi suborbitali a fine bellico), Cina e India. Quest’ultima infatti, per restare in tema, ha lanciato ad agosto 2023 una sonda senza equipaggio verso la Luna che è riuscita, per la prima volta, a raggiungere il polo sud lunare, mentre già punta alla ben più difficoltosa osservazione ravvicinata del Sole.
A tutto questo si aggiunga, infine, il classico obiettivo politico delle missioni spaziali, in particolare quelle lunari, ovvero il consenso della massa della popolazione; come Kennedy, infatti, ne fece un baluardo per conquistare carisma e fronteggiare l’URSS nella corsa allo spazio, l’ottimismo aerospaziale oggi assume connotati sempre nuovi, volti soprattutto a sottolineare l’importanza dello spazio per gli abitanti che restano sulla Terra.
L’impatto lunare sulla Terra
Ma quindi, a noi comuni mortali che non possediamo un milione di dollari a gamba per viaggiare su un volo commerciale privato, come potrebbe risultare importante un ritorno dell’uomo sulla Luna?
La risposta: tutto e niente.
È vero, infatti, che l’industria aerospaziale e lo studio del cosmo hanno un’importante ricaduta, soprattutto a lungo termine, sulla vita terrestre di tutti i giorni: sono i cosiddetti “spin off”, quegli oggetti frutto di studi ingegneristici usciti dal NASA Technology Transfer Program, la missione più longeva dell’Agenzia spaziale statunitense, il cui scopo è proprio quello di “garantire che le innovazioni sviluppate per l’esplorazione e la scoperta siano ampiamente disponibili al pubblico, massimizzando il beneficio per la nazione”. Senza contare, inoltre, i benefici puramente scientifici e culturali dell’esplorazione dello spazio -anche se oggi messi in secondo piano-, in particolare per quanto riguarda la meccanica e la medicina. Dal punto di vista economico, invece, la ricaduta sulla popolazione sarebbe ben poca, in quanto tutta la filiera produttiva sarebbe appunto incentrata nelle mani di poche aziende, che andranno ad arricchirsi sempre di più; per quanto riguarda il turismo spaziale, invece, esso accompagnerà in maniera sempre più presente lo sviluppo aerospaziale, come testimonia l’impatto mediatico della missione Inspiration4 di SpaceX, trasmessa in una docuserie sulla piattaforma Netflix.
E chissà se, un giorno, una parte della popolazione terrestre sarà chiamata a colonizzare davvero Marte o chi per esso, cercando di non ripetere gli stessi errori del passato; nell’attesa di questo momento, però, la situazione climatica della Terra peggiora di giorno in giorno anche a causa delle massicce emissioni dei razzi in questione, che fanno davvero dubitare se ormai il viaggio sia direzionato verso la Luna o verso i soldi.
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