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Anticlea

Data: 3 Aprile 2022

Tag: Racconti

Di: Filippo Zannoni

Prologo 

La bandiera imperiale ondeggiava sbuffando al vento sopra alla città dai mille canali, una volta circondata da una rigogliosa foresta, sventolando l’arrivo dei nuovi conquistatori dagli elmi luccicanti e dai sontuosi vestiti.

Maestose piramidi, sfide titaniche di semi-dei, s’ergevano come monoliti in silenziose radure lentamente inghiottite dall’inarrestabile vegetazione, quasi avesse voluto proteggerle da occhi indiscreti o spiriti distruttori. Dove una volta infinite sfarzose cerimonie avevano luogo fra piumati copricapi e gioielli preziosi, adesso un dio straniero vegliava pazientemente e due vecchie sentinelle assonnate, stiracchiandosi svogliatamente, impedivano che si compissero ancora ed ancora.

Mentre antiche e ormai dimenticate divinità piangevano attraverso mute statue l’era d’oro e la scomparsa del popolo prediletto, su cavalli sellati percorrevano le strade di cocci, fieri mercenari e rigidi anziani generali che guardando sprezzanti di sottecchi le basse case, di tanto in tanto si fermavano a sputare contro azzoppati e vili indigeni che strisciando lo sguardo a terra chinavano la testa in segno di sottomissione. 

Gli unici di loro in grado di ribellarsi, agonizzavano nelle prigioni o stramazzavano appesi ad una corda di fattura europea; gli spagnoli ed i loro Conquistadores ce l’avevano fatta: avevano portato le loro navi attraverso rotte mai esplorate prima d’allora, vinto civiltà di cui non pronunciavano nemmeno il nome, conquistato una gloria destinata a durare in eterno.

 Marzo, A.D. 1525 Mexico, Vicereame di Nuova Spagna, antica Tenochtitlán

Un’alba scarlatta dalle sfumature giallognole e arancioni come frutti appena colti in una gelata mattina invernale, illuminò radiosamente la città ancora dormiente, conscia del fatto che il Sole non sarebbe più tramontato. I primi servi s’apprestavano a non far mancar l’acqua ai propri padroni e sacerdoti mattinieri battevano fiaccamente l’ora sopra nuovi campanili mentre fedeli stallieri pulivano e ferravano diligentemente i cavalli andalusi degli Hidalgos, per la maggior parte nobili decaduti arricchitisi grazie al Nuovo Mondo. Le strade cominciarono a riempirsi di brusii e mormorii attirando freddolosi uccelli come pappagalli o quetzàl dai sgargianti colori che poggiandosi sulle rovine di una torre scrutavano con curiosità il via vai che man mano andava ad aumentare col lento passare delle ore.

I biondi caldi raggi solari penetrarono timidamente all’interno di una locanda situata vicino alla prigione cittadina, dove instancabili avventori cercavano attraverso intensi liquori e carni europee, la forza di intraprendere viaggi interminabili o spedizioni alla ricerca di mete inesistenti. 

Una lurida taverna covo di pirati o di capitani che strinsero patti col diavolo, dove un’insegna sgangherata recitava oscenità ed i prezzi del rum. Tana di solcatori di mari, mozzi e corsari rinnegati che guardandoti in cagnesco digrignavano la bocca in un sorriso amichevole offrendoti un altro giro ad un sudicio tavolaccio. 

Eppure da tempo, ormai, solamente sporadici ospiti facevano la loro comparsa come qualche secondino spagnolo di pausa che condivideva a malincuore un bicchiere con qualche fortunato indios, vestito di stracci e irriconoscibile dalle percosse subite, riuscito a mantenersi vivo avendo lavorato come guida per Cortéz. Gli “sfortunati” amerindi infatti potevano dirsi coloro la cui prima vista del giorno non erano che le affilate alabarde dei seviziatori all’interno di umide ed asfissianti celle. Questi prigionieri, sapevano cosa significasse svegliarsi dopo una notte passata tra i dolori lancinanti del freddo e soffrire la fame tanto da rinnegare la propria fede e la propria famiglia implorando a fil di voce un po’ di cibo, domandandosi se la mattina seguente si sarebbero nuovamente svegliati. Erano gli aguzzini che pensavano a scongiurare ogni velleità di ribellione o malsano pensiero di fuga mediante infiniti strazi e tormenti che gli sventurati subivano urlando a testa alta; piangendo e pregando il carnefice di fermare il supplizio a tutti costi, fino a che la ruota non si fermava ed il corpo martoriato veniva lasciato boccheggiante al suolo. 

L’unica cliente fissa era una taciturna mendicante donna azteca abituata ad “accucciarsi” in un angolo del locale: lei e l’oste, un certo francese di Lione dai modi gioviali che usava portare due prepotenti baffi, costituivano la sola compagnia che chiunque fosse per caso entrato avrebbe trovato immersa nel più religioso silenzio. 

Mentre lui puliva diligentemente con uno strofinaccio i boccali da servire, posizionandoli in ordine sul bancone polveroso, lei fissava con un’espressione di vacua melanconia l’entrata del locale come se fosse stata in una continua ed interminabile attesa di un prodigo e divino messaggero.

Un velo di tristezza infinita era calato irrimediabilmente su di ella: neri capelli carbone le cadevano in grembo senza posa, ed il volto olivastro perennemente contratto in una smorfia indefinita le davano un’aria d’austerità e vecchiaia prematura mentre gli occhi azzurri si soffermavano sfuggevolmente talvolta sulle logore piccole e minute mani che stringevano con ansia i lembi di uno sporco mantello che le copriva, proteggendola, l’esile corpo. 

Di un’antica e nobile bellezza sfiorita, non ne rimaneva che il ricordo perduto; ed era infatti il relitto di un passato dimenticato che rimpiangeva un defunto presente, che come un silente eco continuava a sussurrarle parole di speranza.

Luc, così chiamava il francese, non se ne dava pena, anzi si poteva addirittura dire che provasse un particolare affetto per quella vecchietta, come la chiamava lui, e tentava di difenderla dai perversi desideri di ebbri avventori noncurante se ciò avrebbe comportato una lite o quant’altro: in Francia era peggio, si ripeteva e credeva fermamente che “les dames sont inviolables”. 

Improvvisamente entrarono, facendo di scatto voltare Luc, due uomini. 

Uno sulla mezz’età visibilmente stanco ed abbattuto, vestito elegantemente con una lunga zimarra blu scura ed un cappello dalle piume bianche, appoggiatosi al bancone chiese, tramite un esplicito gesto della mano vagamente volteggiata in aria, qualunque cosa “forte” vi fosse. 

L’altro, giovane prete, che indossava una consunta, ma candida tonaca bianca, col pallido volto nascosto da un cappuccio nero si sistemò silenziosamente in una nicchia dove mormorando parole incomprensibili prese a sfogliare una Bibbia che teneva appresso.

Obbedendo prontamente al comando del primo, il francese si lasciò sfuggire un -Vossignoria, cosa mai di nuovo avviene  in città ?-

Toltosi il cappello, rivelando una folta chioma castana, Fidél Herberto fornitore di spezie delle Indie occidentali ed orientali per conto di sua Eccellentissima Maestà Cattolica, rispose indicando con il mento il religioso -Vedete…In questi momenti… Arrivati questa notte…Un intero corteo…Quale onore !-

-Chi ?-

-Inquisitori direttamente da Roma ! Hanno ispezionato le carceri…interrogato qualche miserabile. E che rimanga fra di noi- disse sussurrando avvicinandosi all’orecchio svelto dell’oste -credimi, li torturano proprio per bene quegli indiani…Cercano, cercano certi tesori…-

L’alcool trangugiato in fretta faceva anche troppo effetto; erano forse  informazioni riservate ?

-Certo- continuò -non condivido i loro metodi, mah ! Quando si tratta di denaro…- disse alzando le spalle 

-allora tutto è lecito. Ovvio però che…- non riuscì a finire la frase che ingollò un altro bicchiere e finì per restar seduto là, inebetito ed imbambolato per una notizia di tanto scalpore. 

Il sacerdote che non c’entrava niente con i suoi più spietati “colleghi”, non pareva aver sentito o udito niente e trovò ineccepibilmente biasimevole il comportamento del suo fortuito compagno.

Non era passata un’ora dalla loro entrata che si precipitò dentro al locale, fradicio di sudore, pingue ed ansimante un soldato che sedutosi ad uno dei tavoli, ordinò smodatamente qualcosa da bere e la colazione del giorno. 

Sbattendo di fronte a sé un paio di maravedí e guardandosi attorno con soddisfazione si sistemò i biondi capelli lerci. 

Arrivato l’atteso pasto, cominciò a parlare tra un boccone e l’altro, sputando e gesticolando con foga, 

-Ah ! Ci credete ?!- rivolgendosi ad un muto disinteressato pubblico; solo Fidèl di tanto in tanto destandosi dall’ebrezza pareva minimamente interessato al discorso infervorato dell’omaccione. 

-L’abbiamo finalmente ammazzato quel cane pagano! Aveva resistito si, con l’olio, ma alla corda non si scappa !- disse, o meglio gridò in preda al delirio. 

Il prete, incuriosito smise istintivamente di pregare tendendo le orecchie.

-Impiccato ?- s’intromise Luc che cogliendo al volo l’oggetto del “monologo” cercava di tenersi aggiornato sugli avvenimenti cittadini.

-Oh ! Giusto qualche giorno fa… Avreste dovuto vederlo, appeso all’albero più alto che c’era !!! Diceva d’essere un re ! Ci pensate !?- disse scoppiando in una grassa risata fermata dall’istintivo impulso di versarsi un altro po’ di vino. 

-Come si chiamava ?- 

Jago Ellátigo, gendarme destinato all’esecuzioni, non esitò a rispondere all’irrispettoso straniero.

-Cautemok !!- urlò provando disgusto per ogni sillaba pronunciata in quella lingua selvaggia, 

-e oh se penzolava !!-

-Cuauhtémoc !-una voce proveniente da un angolo della taverna tuonò troncando il discorso del boia. 

A questo punto l’attenzione del giovane reverendo fu totalmente rapita.

La“vecchia”che fino ad allora non aveva proferito parola come ridestatasi da un sonno profondo tornò ad esclamare con voce tremante dall’emozione storpiando le parole: -Cuauhtémoc ! Cuauhtémoc ! 

L’avete visto ?- facendo correre gli occhi spenti, ora fari di speranza, senza interruzione da una parte all’altra della stanza dove gli avventori la fissavano attoniti.

-Il principe è tornato ? Dove ? Senza avvisarmi ?- ora quasi a rassicurare sé stessa -Poteva farmi avere un messaggio del suo arrivo !?-

S’alzò d’improvviso, rovesciando una sedia al lato del tavolo, portandosi le mani al petto per poi alzarle con un immane sforzo verso l’alto in un gesto simile alla preghiera più intensa ai piedi dell’altare. 

-Mio figlio ! Ho sentito bene ?! Ecco ! Ecco, vedrete che a momenti tornerà !- seguitò ad “annunciare” mentre le parole le si frantumavano e ricomponevano incessantemente in gola.

Infine si risedette più risoluta che mai, -Sta arrivando vero ?! Voi, l’avete detto voi…Mio figlio, oh me l’ha promesso che sarebbe tornato da me ! Ahì ! Evviva ! Certo sarà affamato…Luc !- disse chiamando in causa il francese che a bocca spalancata la squadrava strabiliato.

– Alle tue dipendenze !- rispose balbettando all’appello.

Trascurandolo, con gli occhi trasognanti riprese parlare con maggiore foga e convinzione di pochi attimi fa.

-Bisogna che sia tutto pronto, accidenti ! Sennò sarà deluso: mi vuole rendere fiera di lui…Ma come potrei non esserlo !?- scoppiò in un dirompente pianto amaro carico di tensione e tristezza e le lacrime sgorgavano a fiotti sull’antico volto scavato.

-Ora però rallegriamoci, porque mio, mio figlio, l’imperatore, é tornato ! Dov’é ?!- eppure non s’aspettò alcuna risposta alla retorica domanda, infatti si “accoccolò” nell’angolo questa volta però ravvivata nello spirito: attendeva perché sapeva che sarebbe arrivato; osservava concentrata la porta, poiché, l’avevano detto loro, qualcuno sarebbe presto entrato. Quindi, comparve posato serenamente sulle strette labbra un del tutto inaspettato, dolce sorriso. 

Il misterioso sacerdote corrugò la fronte, posando gli azzurri occhi sull’insolita indigena.

L’assordante silenzio creatosi, fu purtroppo interrotto bruscamente ed in modo piuttosto sgradevole dal grugnito dello spagnolo che con la pancia piena mentre chiudeva le palpebre come se fosse stato improvvisamente abbagliato e si puliva i denti marci con la lingua.

-Vecchia racchiona, che mai vai ad intendere !!? Chiunque sia quello…- cominciò spingendo un grasso dito verso la porta -Non arriva più ! È morto ! Non hai sentito ?! Appeso ti dico…- ci tenne a precisare – Appeso ad un albero secco con n’anche più una foglia ! Ah, ma credi ch’è vivo ?! Morto, morto, quel selvaggio d’un indiano !- terminò mimando la faccia stramazzante di un impiccato con la lingua penzoloni.

Il mercante alzò appena un sopracciglio, Luc era ammutolito, lei invece parve scossa da un leggero tremito come un giunco dopo un’effimera folata di vento, ma rimase apparentemente inerte, aggiustandosi solamente con noncuranza un rado ciuffo che le sfiorava la fronte. 

L’anonimo ed enigmatico prete fermatosi a Luca 15,11, alzò il capo e si risolse definitivamente ad alzarsi e raggiungere la “vecchia”. Un desiderio innato di conoscere sorgeva sempre di più all’interno del suo giovane animo che per qualche oscuro motivo gli s’insinuava irreversibilmente nella mente. Una sete inestinguibile di sapere, che cosa v’era dietro quell’uscita di senno da parte dell’azteca e un fosco presentimento, lo tormentavano. Eppure non credeva che fosse solo un raro caso di follia apparentemente ingiustificata da annotare e studiare con freddezza e sinistra impassibilità. Aveva visto e conosciuto nel corso della sua vita in particolare in Grecia, persone agli orli della pazzia, individui malinconici ed “indemoniati” da un fuoco di passione e ricordi. 

Si riportava di sovente alla memoria la Grecia dove aveva potuto leggere l’Odissea, e aveva saputo riconoscerla in tutti: chiunque portava dentro di sé un viaggio, un ritorno mancato, una guerra da nascondere o da fuggire. Addirittura, nonostante le imposizioni e le rigide regole dell’imperatore e del Santo Padre, era riuscito a confessare turchi e tartari che possedevano, al tempo, solo la fievole forza di parlare cercando il perdono.

Riteneva quindi suo dovere morale oltre che divino, confessare quella poveretta, così anch’egli avrebbe portato per lei un poco del suo profondo dolore, alleviandola come la fresca rugiada mattutina carezza un arido stelo d’una rosa. 

Certo era conscio del fatto che la forma ufficiosa dell’assoluzione l’avrebbe potuta intimorire o ricordi passati sarebbero potuti ridestarsi violentemente, così si decise, se lei avesse acconsentito, di ascoltare un semplice “racconto”, in cambio le avrebbe donato la Bibbia in cuoio che possedeva: una vita narrata in alcuni istanti per eterne parole d’amore.

Si puedo…- cominciò Don Juan Sacer sedendosi con le mani giunte di fronte a lei.

Si limitò a squadrarlo molto attentamente.

-Ci credi, ch’è morto ?- provò ancora da sotto il cappuccio pece.

-Affatto- sentenziò.

Schiarendosi la voce continuò -ne sei persuasa ?-

Ciertamente, non posso credere sulla parola…- abbassando il tono -…del primo spagnolaccio che mi si para davanti ! L’ha dichiarato morto così su due piedi: impiccato ? Che sciocchezze !-

-Sebbene…-

-Troppo astuto è per farsi per catturare- riprese la parola con un sussurro – troppo accorto per finire negli artigli degl’ispanici…-

E poi alterando la rauca voce proclamò a fatica -tornerà, tornerà e riporterà alla gloria l’immortale impero nel nome di Quetzalcoatl, il dio piumato, restaurando il potere divino conferitogli dal Sole e la Luna e tutti gli astri…Perché deve sapere, noi discendiamo dal cielo ! – 

All’occhiata interrogativa del religioso rispose indicando il soffitto -eh si, proprio da lassù ! Stelle, pianeti e comete ci guardano per vegliare su di noi, ma non c’accorgiamo che non sono altro che spiriti defunti, fantasmi e anime familiari che ci sussurrano l’avvenire…-

-Fantasmi ?-

Attendeva la domanda un malizioso sorriso corrugato, che celava un oscuro presentimento sulle sorti dell’incontro. Un insolito “colloquio” che non suscitava la minima attenzione tra gli “affaccendati” avventori, tranne che per il francese che gettava di tanto in tanto preoccupate occhiate al cappuccio di tela nera.

-No fantasmi, persone, persone !!!-

La giovane fronte si contrasse decisamente, e le mani si strinsero come in preda al panico.

-Uomini ?!- balbettò

-Ah ! Senor ! Che mai intendo ?! Non ci credete forse ?!-

-Angeli ? Io non…-

-Chi mai ?-

Imperterrito allora sentenziò -uno ed un unico Dio ci “osserva” dal regno dei cieli !-

-Il suo nome ?- domandò dondolandosi avanti col corpo.

-Come dice prego ?-

-Il nome !-

Strabuzzò gli occhi nell’atto di chi ha appena sentito di un’assurdità ritenuta per veritiera.

-Insomma, come si chiama ?-

-Chi ?-

-Il tuo dio- ripeté visibilmente seccata.

Il Reverendo sospirò profondamente tentando di mantenere un apparente stato di calma e si limitò a commentare sprezzante – indiani…indiani come voi non potrebbero comprendere…assassini che uccidono e strappano il cuore per falsi idoli…pagani !-

-E voi ! E allora voi che ogni volta mangiate il corpo del vostro dio, non è la stessa cosa !?-

Ignorando a fatica la domanda continuò -pagani, quasi animali, nient’altro che selvaggi…-

A mi ! Escándalo !- a quel punto s’eresse dall’ammuffita panca di legno e serrando le palpebre quasi dovesse intraprendere un duello all’ultimo sangue con colui che infamava, per ignoranza, la sua famiglia, la sua patria e gl’immortali dei ! Come osava costui !

-Tu evidentemente ignori chi ero ! Mi s’inginocchiavano ai piedi ! Eschuchar ! Io ! Abituata ad essere considerata una divinità, a guardare, dal fianco di un trono dorato le continue ed insaziabili guerre della mia gente, sacrifici dal più alto dei teocalli !- 

Il prete era soddisfatto, aveva ottenuto il risultato desiderato.

-Ero, sono una regina ed una madre. Una regina ! – e voltandosi verso un’assente platea -E mio figlio l’imperatore, ci pensate ?!-

Si risedette più sconvolta che mai: immagini di opulenti banchetti, dell’oro, del potere intriso di sangue; interi villaggi non avevano potuto sottrarsi alla loro ascesa, inarrestabili si sarebbero potuti definire. 

Invincibili eroi militavano tra le file azteche, titani di pietra scolpiti dal tempo immemore di un glorioso passato ed un aureo presente dove il mito immutabile si confondeva con la realtà. 

Si rammentava quando folle, giunte dall’estremo arido nord o dalla lussureggiante giungla del sud, gridanti e plaudenti dimenavano le braccia e le armi in un vortice di colori ed inni vittoriosi al cospetto della sua famiglia. E poi ! Ricordava i tempi dov’erano loro ad incutere riverente timore e la più angosciosa, martellante, orrenda paura, erano gl’incubi, come demoni ululanti fuggiti dall’oltre tomba, scampati dal fuoco delle fiamme dell’inferno. Guardavano al mare ancora con dolcezza, speranza e sfida.

Non fosse stato per quegli sporchi, malati, vili, stranieri a strappar lei tutto ciò che aveva amato e desiderato più di ogni altra cosa esistente. 

Un odio profondo, s’innescava, chiedendo allo sterminato deserto d’acqua, perché non avesse distrutto, inabissato nelle viscere dei flutti quegli uomini miserabilmente dannati, privi di ogni lealtà nelle loro azioni, che amavano la frode e l’inganno; uomini quelli, che mai si sarebbero salvati.

-Ah ma non temere- esordì la Regina d’un popolo inesistente dopo alcuni momenti di silenzio -non devi assolutamente temere…- continuò rivolgendosi al sacerdote che la scrutava con fare pensoso.

-Non avere alcuna paura, non serve, sarebbe inutile spaventarsi tanto. Non cedere, si faccia forza mio misterioso amico, lui verrà, come nelle antiche profezie ! Tornerà ne sono certa, o almeno me l’ha promesso…-

-Ti ha fatto una promessa ?-

-Oh immaginati, il mio eroe, mio figlio, il re, mi ha dato la sua parola…

Quel giorno, quando la città bruciava…durante l’assedio…il nostro ultimo sforzo di resistere agli uomini Cortez…

I suoi languidi occhi si fecero ardenti come tizzoni, poiché videro e continuavano a vivere quegli oscuri  momenti.

-I sacerdoti cercavano da sotto le fiamme di salvar qualcosa ! Nel tentativo morivano sotto le picche spietate !Alcuni anziani servi percorrevano affannati tra le lacrime i lunghi corridoi della reggia supplicando di mettere fine al massacro ! 

Il trono arse assieme a tutto il resto: come sprofondando per sempre nelle viscere della terra !

Il tempo degli dei era giunto al termine.

Mentre simboli sacri, immagini ed icone venivano oltraggiate, dove un tempo sedeva una dinastia divina quel giorno ubriachi spagnoli ci si appollaiavano come rabbiosi rapaci.

Eppure venni salvata, lui proprio mio figlio, l’imperatore di tutti gli Aztechi, mi salvò dal giudizio divino sottraendomi al mio triste destino.

Mi lasciò in una grotta affinché non mi trovassero. 

Là mi promise che sarebbe tornato a prendermi, quando sarebbe stato tutto finito. 

L’imperatore però, doveva adempire al suo dovere celeste ed andò contro gli odiati stranieri.

Rimasi sola per molto, troppo tempo, aspettando il suo ritorno. 

Era partito per un’impossibile guerra ed io aspettai.

Vedi, ora proprio in questo momento è in marcia, non l’hanno catturato come ti ho detto ! 

È sulla via del ritorno ormai da mesi, tra poco lo rivedrò, ne sono sicura.

Credimi, è un uomo d’onore, non mentirebbe mai, soprattutto a sua madre. 

Vedrete, vedrete, che sorpresa mi farà, e voi qui come stolti a guardare ! 

Vedrete che feste che vi farà ! Vi caccerà tutti indietro, ve lo dico io ! Tutti indietro al vostro paese ! Perché…- un pianto, -perché questo è il nostro paese, i nostri alberi…- tirò un pugno al tavolo  -la nostra foresta, sapete, lui sapeva perfino colpire una pantera a distanze che non sospettereste nemmeno ! Ah maledetti…- 

Si coprì il volto tremante con le mani, -ci avete ingannato ! Ci eravamo fidati di voi ! 

É questa la vostra ricompensa, eh !? Possibile che sia questo il vostro misero ringraziamento ? 

Avessimo noi navigato al di là dell’oceano, avessimo noi portato la vostra rovina ! 

Fossimo noi sbarcati in calme spiagge lodando gli dei per la fine del travagliato viaggio ! 

O Fossimo noi venuti a dettar legge su cosa fosse selvaggio, pagano, giusto o sbagliato !- 

Una lacrima, -Ah, ma lui non lo sconfiggerete ! Non lo fermerete mai, appena arriverà, oh se ne vedranno delle belle ! Perché io ne sono certa di questo, no ? Io aspetto e mio figlio ch’è l’imperatore viene. 

E quando succederà… !- un sinistro sorriso le si dipinse in faccia – Gli dei onnipotenti si risveglieranno una volta per tutte, e gli spiriti dei nostri mitici antenati verranno a darci man forte ! Via, via ! 

Non rallegratevi a lungo della vostra effimera vittoria, la natura stessa vi è contro ! Via, via !

La guerra non è finita, continua, continua. Vive ogni istante dentro il mio cuore, e quello di mio figlio, i legittimi sovrani di un popolo che mai sarà schiavo ! Spezzeremo le catene, resisteremo alle torture, come ferro temprato arroventato al fuoco e leveremo l’eterna gloria al Sole ed alle stelle: nostri alleati. Via via !

Non è morto. Poveri illusi. Non è morto…

Non è forse così ? In un viaggio è impegnato, anche ai confini del mondo, ma alla fine lui ritornerà sempre, me l’ha promesso… 

Certo, abbandonai la grotta…A mendicare per magiare, ma…Oh ma lui capirà, lo capirà, dovevo…vivere !

La voce le si tramutò in un bisbiglio -A momenti, pochi attimi, e vedrete che arriva, non temete, non temete…-

La “vecchia” senza nome tacque chiudendo gli stanchi occhi.

Non sarebbe mai tornato, era morto !

Jago Ellátigo che non aveva mai sentito tante assurdità in vita sua, proruppe in un’isterica risata.

-Ah ! Ma ve lo figurate ! Ci credete !? Matti sono, matti !? Ahah ! Dei !…- cominciò per poi finire nel rantolare sussulti divertiti e singhiozzi isterici.

-Non credevo nemmeno che quegli animali fossero capaci di parlare, figurarsi fare un pomposo, lungo, intero discorso ! Robe da matti ! questi solo la tortura conoscono, sennò ti vanno ad infastidire con le loro fantasticherie… Pazzi, selvaggi, incivili… Immaginarsi che avevano persino uno stato !  Meno male che siamo arrivati ed abbiamo dato un freno a questi…-

Sarebbe stato inutile soffermarsi sui pensieri o sui commenti dell’ispanico, che sembrava esser l’unico assieme al francese ad aver prestato attenzione al colloquio tra i due.

Fidèl, il mercante, infatti era ancora in uno stato d’ebrezza infinito quando la “vecchia” aveva cominciato a parlare ed al suo termine cogliendo solamente due parole, si era limitato a strizzare gli occhi e domandare un altro bicchiere ad un allibito oste che mai si sarebbe immaginato una scena del genere.

Juan si sentì scosso dalle membra più profonde, lentamente cominciava a capire, questa storia…l’aveva già sentita. Un racconto di una vita votata alla speranza, all’attesa, alla rivalsa di un regno scomparso, depredato da stranieri usurpatori dai volti più pallidi, da una sete di potere tanto grande da distruggere piramidi e seminarci sopra sale tinto di rosso.  

La vecchia era come un’ombra.

L’ombra di un popolo che s’aggirava senza pace in un limbo di dannazione eterna: adoravano dei, compivano sacrifici umani, combattevano come primitivi gladiatori dalle torri scolpite inumanamente innalzate al turchese cielo, coperte d’una quantità di oro, così gli dicevano i compagni missionari, sufficiente a prosciugare interi fiumi, o coprire città. 

Non era lì per quello, si ricordò. “Questi sono…” non gli venne la parola adatta a sostituire…inferiori ?

“Allora l’assolverò, lo prometto, per la sua cupidigia di tesori, le leggende custodivano sempre un fondo di verità, i massacri dei suoi guerrieri, e soprattutto, andava, questa straniera, sicuramente “salvata”per la sua fede devota a creature mistiche, celestiali”. Qualcosa continuava eppure a rimuginare il giovane prete, spinto da idee così all’avanguardia, ecco ! Il ricordo di una favella ellenica ascoltata da stanchi pastori di Argo, una volta aedi d’eroi, dei (simili a quelli della vecchia, si domandava) sepolti ora sotto cieli stranieri, sotto pietre, fiumi, rocce arbusti ormai dimenticati: non più di ombre; scintillii opachi alla luce vermiglia dell’aurora. 

Ebbene questi solevano narrare alle volte di una storia in particolare, un ritorno insperato d’un guerriero da una terra di forestieri, verso casa e le figure familiari e amate.

“Una madre folle per l’amore di suo figlio di cui rinnegava dentro di sé la morte” somigliava…

“Ma si certo !” Pensò scattando in piedi, osservando ravvivato dal riflesso della verità l’ultima Regina degli Aztechi con occhi sereni e pieni di comprensione. Come un’Odissea: un mare di distanza tra la vita e la morte, tra lei e lui, tra il cielo e la terra; confini invalicabili perfino per il più esperto dei navigatori. Un ritorno impossibile. Dal regno dei morti ? Da una guerra ?  La vecchia azteca era sopravvissuta al proprio destino, alle linee tratteggiate dal poema epico: il re in viaggio di ritorno, lei in attesa; un marinaio che tornava a casa, la madre morta nella speranza di vederlo un’ultima volta.

Anticlea ?”

Così si chiamava, così si chiama, la regina-madre senza nome.

Il fato aveva solo voluto scambiare le due mutevoli sorti. La vecchia aveva un nome dopo tutto; chi più di una madre di un eroe poteva sopportare proprio il Fato ? Il destino di tutti: morire tornando polvere… tornare a casa. Ormai tutto si faceva chiaro come alla più abbacinante luce del giorno.

Guardava ormai la vecchia con fare quasi familiare: le aveva dato un nome più che perfetto, un nome che incarnava le sue sofferenze, le sue angosce. Sarebbe arrivato ? 

Sarebbe arrivato !

Adesso capiva. Il suo Dio era misericordioso: c’era sicuramente posto al Paradiso dei redenti per la sua Anticlea. Le due vicende non parevano avere molti punti in comune, né il tempo né il luogo potevano dirsi simili. Nessuno seppe mai e nessuno lo volle mai scrivere su elaborate pergamene cosa provasse la madre di Odisseo. Non c’era apparente motivo di saperlo. Solo quell’ombra e quell’eco dall’aldilà, ultimi sforzi dolorosi di guardare negli occhi il figlio, suonavano come riverberi lontani di mari spumeggianti color vino all’interno d’una conchiglia appoggiata all’orecchio, in ricordo di quando s’era ancora bambini. L’ingenuo prete, vissuto tra libri e terre impervie, il mondo dei dannati, non poteva comprenderlo. 

Solo cercava, tentava disperatamente di dare un nome a ciò che non conosceva imbrigliandolo in redini soffocanti per chi non era che un eco d’un’anima che non s’arrendeva al suo tempo. Voleva trattenere quell’energia sconosciuta dentro ad un corpo che non le apparteneva: eppure lui ne era convinto, conosceva la sua storia, conosceva quella storia; ora poteva veramente comprenderla profondamente. 

Un nome, una parola che avrebbe strappato l’antica imperatrice alla sua terra: il cielo stellato da cui le divinità t’osservavano ammiccando.

Eppure lei sopravviveva in una landa divenuta desolata, non più i suoi abitanti ci passeggiavano tra le fronde umide e vuota, ben presto le case ed i palazzi antecedenti l’invasione si sarebbero prostrati in ginocchio, abbattuti tra preghiere e giubilanti canti di gioia. 

La “vecchia” sopravviveva da straniera nel luogo dov’era nata e cresciuta ascoltando vecchie nenie d’eroi, dei, dai volti dipinti e i mantelli piumati: solo per la speranza che un uomo morto potesse un giorno presentarsi alla porta; bussando forse ? Viveva oltre le pieghe del tempo consentito agli uomini, penetrando in quello lasciato a quegli esseri straordinari che popolavano, secondo le leggende bisbigliate alla luce d’un piccolo fuoco scoppiettante, città d’oro. 

Per cosa ? Per un fantasma giustiziato il cui corpo giaceva forse abbandonato ai piedi d’un tronco appassito a giorni di distanza ? Questo le dava forza: non la morte, ma la sua rinnegata, silenziosa, impossibile vita.

Un silenzio tombale era sceso sugli avventori di quella sudicia taverna, se non fosse stato per i tentativi futili del prete nel cercare di svegliare da quel vigile sonno la “vecchia” sussurrandole più volte timorosi “Anticlea ? Forza, coraggio. Ascoltami. Ascolta la parola del signore. Anticlea…” 

Ella però rimaneva silente, muta, tacendo il suo dolore.

Egli insisteva. Non l’aveva capita affatto. Non era il nome, quello, non era che un estraneo forestiero per lei.

-Ormai ti conosco, raccontami ancora, porta la pace nel tuo cuore !- seguitava a dirle toccando ripetutamente la Bibbia come ad assicurarla dell’indiscussa veridicità delle sue parole. Non rassegnandosi continuava a ripeterle quel nome straniero, cercando di spiegarle il perché si chiamasse così, certo non era un caso. 

Era destino. 

Tra le parole bofonchiate di Juan, sonnecchiava tranquillo sulla panca di legno Jago, che sbadigliando di tanto in tanto guardava con profondo disgusto l’indigena ed il suo loquace interlocutore chiedendosi come mai esistessero sacerdoti così curiosi, poiché secondo lui la curiosità  metteva il pretino allo stesso pari di quegli altri come lui che si facevano ammazzare per proteggere un indiano. 

Era proprio indignato.

Luc invece s’era assopito anch’egli nel tepore mattutino pensando alle famose parole che sembravano continuare dargli una certa sicurezza e serenità: “in Francia si stava peggio”. 

Ad un tratto però il mercante s’alzò, scoccando occhiate divertite agli angoli del locale e cercando di non perder l’equilibrio tant’era inebetito e brillo. Si diresse dapprima dal giovane sacerdote, s’inginocchiò rischiando di cadere disteso a terra e si fece il segno della croce; poi dall’alto della sua vertigine infinita diede una pacca sulla spalla allo spagnolo che credeva ormai di aver visto proprio tutto, a quel mondo di “matti”. Lanciò qualche moneta, non badando alla valuta, sul banco e si piantò sulla soglia reggendosi ad entrambi gli stipiti. Si aggiustò il mantello e cercando di assumere l’aria più dignitosa possibile proclamò solennemente 

-Io…Io non voglio essere confessato e, e non ho niente da confessare…-

Le sue parole stupirono l’intera assemblea: nessuno era là per redimersi, almeno non volontariamente, e nessuno sembrava sul punto di farlo. 

Come avesse fatto Fidél ad intuire le vere intenzioni del prete non v’è possibile darcene una spiegazione.

-Non starò un minuto di più in mezzo all’accozzaglia più diffamata di Spagna e Messico…Quin…Quindi vi vorrei dire addio e…- disse togliendosi il cappello e volteggiandolo in aria per accomiatarsi onorevolmente pronunciandosi perfino in un inchino. Pareva come sospeso su di una fune sul punto di spezzarsi che avrebbe rivelato un interminabile vuoto ed un profondo baratro; non riusciva a mantenersi in piedi ed insisteva a guardar il francese come volesse dire “Sto bene vecchio mio non c’è bisogno che tu accorra”. 

-E…credo che bisogni lasciar da parte certe città… montagne…- riprese a balbettare farfugliando freneticamente -ma ! Ma ! Il vero affare sta…nel…Nella man…- e qui ammiccò all’affamato boia d’imperatori -sta come dicevo  nella mano…mano…-

-Manodopera ?- suggerì il conquistatore spagnolo 

-Grazie ! Manodopera di stranieri ! Ecco ! Stranieri bruni e docili da altre parti del…- si sforzò di completare la frase, ma non vi riuscì, si limitò a ripetere con più convinzione e forza -manodopera !- 

-Solo una mano e le sarei grato. Spostati figliolo !- suonò rauca una voce arrugginita proveniente dall’esterno.

Fidél si ritrasse sgranando gli occhi indignato ed atterrito alla vista dei nuovi ospiti, lasciando entrare una strana, imbelle, forestiera coppia. 

Erano, per la maggior parte dei presenti, due uomini: l’uno dalle mani costrette sul dorso ed il capo chino, il corpo scoperto macilento, spiava vacuamente da oltre una coltre di polvere che gl’inondava il volto i suoi osservatori, mentre l’altro: alto, imperioso e sporco di terra spingeva il primo all’interno della taverna digrignando la bocca in una smorfia indescrivibile volgendo un incompleto sorriso al mercante che ancora stentava a creder ai suoi vacillanti occhi iniettati.

La vecchia s’alzò; lo riconobbe immediatamente; il Sole da Levante brillò colpendo, come una folgore che squarcia il cielo coperto da immense tenebre, le figure improvvisamente comparse alla porta, come “un figlio al prodigo appare alla vista incredula, ma speranzosa, del padre ormai anziano”.

Era arrivato, infine.

Non aveva temuto !

Aveva marciato, oh se aveva marciato attraverso deserti di desolazione, gole purpuree nella roccia viva, fiumi  sul punto d’esondare: giungle lussureggianti s’erano chinate al suo passaggio come prostrate all’arrivo d’un dio considerato partito e poi più tornato a casa.

Era giunto !

Aveva seguito le fedeli stelle che gli avevano tracciato la via, sempre a nord, verso le montagne s’era sicuramente ripetuto dall’alto del cavallo preso nel trionfo contro i conquistatori. 

Una scintilla

Mai s’era fatto portare via la speranza di viver ancora una volta nel mondo da lui amato, mai aveva pensato di ripiegare le splendenti piume d’animali familiarmente esotici pencolanti sul fiero capo.

Un tizzone

Aveva continuato a correre libero come uno sparviero gareggia col vento volando nel cielo terso d’azzurro, dove solo piccoli puntini dorati paiono essere gli unici padroni del loro universo.

Non aveva certo mentito o promesso per poi non mantenere: adesso, ecco che viene verso di lei, ecco che le si posiziona di fronte colle lacrime agli occhi, ecco che si scorgono gli occhi immortali del suo Imperatore. 

Un incendio 

Ecco che le sussurra parole di conforto;

Un rogo; le bisbiglia di non piangere poiché ormai è là, e nessuno potrà più fermarlo, Nessuno. 

Come un naufrago dopo che una tempesta s’è abbattuta con violenza sulla sua zattera senza nazione trascinandolo negli abissi più profondi dei flutti marini, annaspa  gemendo e tocca la terra promessa, s’alza e riconoscendo il luogo dove usava giocare, scherzare libero tra le onde che s’infrangevano dolcemente sugli scogli coperti da licheni, bacia il suolo e s’avvia verso casa: alla maniera d’un bambino che torna finalmente tra le braccia dei suoi, correndo felice inciampando, ruzzolando, cadendo per poi rialzarsi più forte di prima.

Questa fu la sensazione che come un inferno la infiammò portando con sé dirompenti emozioni, sentimenti, paure, ansie, ossessioni; la assalì potente come un fiume, che s’ingrossa, straripa e sfonda gli argini irrompendo violentemente travolgendo “il fondo del mare”. 

Sgranò gli occhi, il respiro le si fece affannoso, strinse le dita nei palmi delle mani, il dolore della gioia fu enorme. 

Il tempo parve fermarsi trascinando la Vecchia ed il suo Ulisse, tornato dall’incubo orripilante degli inferi stranieri, fuori dalla sudicia locanda, luogo di preti ciechi convinti di vedere, viscidi uomini addetti a tirare una  ruvida nodosa corda sopra ad un ramo ed ingenui osti.

Ora lo vedeva con chiarezza, circondato da una nube che brillava come dipingendogli attorno un’aurea dorata.

Gli si avvicinò tremante a piccoli passi incerti, poi si slanciò  in un abbraccio amorevole.

Lo guardò negli occhi, al suo interno si perse: vide scorrere in un battito di ciglia l’intera sua vita; la bellezza degli anni dove la libertà regnava incontrastata dal Sole alle radici sepolte, l’amore, le abbacinanti stelle nelle notti sfavillanti d’un’epoca scomparsa come una lacrima in una grigia pioggia d’autunno.

Nell’abbraccio più lungo del mondo le parve di mormorare fievolmente:

-Dov’eri ?-

Le risposte vennero, nel sogno della vita che sta per lasciare un’anima già defunta per la morte rinnegata del figlio.

-Dov’eri ?- ripeté.

-Ti stavo cercando-

-Io… guardavo le stelle, m’avrebbero indicato…-

-Le stelle continuano a brillare il futuro è nostro.-

Il suo cuore commosso non resse. Svanì come un’ombra le cui parole riecheggiano nel silente tempo moderno, al pari d’un eco lontano di cui si percepisce solamente la grande disperazione, la forza, la salvezza, la felicità finalmente raggiunta. Morì nell’abbraccio con il suo guerriero, ancora bambino, ancora nella culla dove riposava, ancora il suo re: sempre, fino alla morte. 

Lunga vita al re…

I nobili dai copricapi piumati e le pelli di giaguari come vestiti, i soldati dalle piume colorate e le mazze d’ossidiana affilate come rasoi, i sacerdoti ricoperti di gioielli e monili d’oro, i fanciulli festanti inghirlandati a festa, erano lì: prima di lei, ad aspettare di ricevere anche la loro Regina. Li si vedeva chinare la testa, farsi da parte, intonare canti, portare le mani al cielo, schierare i guerrieri migliori in parata, mostrare i tributi di città o villaggi lontani. Tristi, disperati: si scorgevano gli occhi iniettati e la capigliature scomposte per il pianto dei generali che cercavano di nascondere il fiero volto dietro il verde smeraldo del mantello. Non c’era motivo di farlo.

Erano lì prima di lei.

Erano lì per lei. 

L’avevano aspettata come fa una madre con il proprio  figlio.

Proprio un sogno. Un’allucinazione. Egli non era affatto arrivato. La nube dorata ? Il riflesso del Sole sull’armatura del secondo individuo: un officiale spagnolo di ritorno con un prigioniero azteco, un ladro, ch’era fuggito tra i campi ondeggianti, che parve così tanto somigliare all’imperatore. Si sedettero entrambi senza capire cosa fosse successo, schivando la “vecchia” accasciata a terra.

Don Juan Sacer, il prete che credeva alle ombre dei fantasmi, accorse affannosamente sorreggendola con le braccia, accompagnandola dolcemente a terra, sussurrandole amorevolmente parole in una lingua antichissima.

Fece in tempo a notare sulla guancia olivastra scorrere lentamente una amara lacrima di libertà e sorgere un sereno, tranquillo, largo sorriso: era morta vedendo suo Figlio tornare per salutarla, come voleva. Come aveva sempre voluto. Era tanto felice che si sarebbe potuto dire che stesse semplicemente dormendo e sognando gli astri nella volta celeste. La “vecchia” lasciò il mondo credendo d’averlo visto, d’averlo accolto come si doveva, ma chi le avrebbe potuto dire quale fosse la verità ? 

Sorrise, qualcuno dei presenti in seguito riferì perfino che rise, fino a quando le fu concesso. Rideva !

Ce l’aveva fatta !  Oh se ce l’aveva fatta ! Quel sorriso ! 

Anticlea era riuscita, alla fine dei conti verità o menzogna che fosse, a stringere a sé Ulisse, per riposare nella pace più profonda e gioiosa.

Il prete posò la Bibbia sul tavolaccio, come da promesso.

-Ego te absólvo.-

Epilogo

Il Sole era ormai alto nel cielo, il vento aveva preso a sbuffare con forza da Ponente; sui tetti della città dai mille canali s’alzò in volo una maestosa aquila che prese a volare con leggerezza tra le candide nuvole, sopra all’infinito mare, per poi sparire per sempre, oltre l’orizzonte infuocato.

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03/04/2022|Categorie: Eureka|Tag: |